Nessun veto: l'astensione epocale degli Usa alle Nazioni Unite
lunedì 25 marzo 2024

Quella di ieri al Palazzo di Vetro a New York è stata un’astensione epocale. Che dà la misura di quanto tempo sia occorso perché per una volta le Nazioni Unite servissero davvero a qualcosa oltre che ad essere la cassa di risonanza della perpetua discordia che intercorre fra le cinque potenze vincitrici della Seconda Guerra Mondiale dotate di potere di veto. Un veto che Russia e Cina hanno esercitato ogni volta che le risoluzioni proposte al Consiglio di sicurezza ledevano o anche solo sfioravano i propri interessi, così come di prammatica è stato il veto statunitense nella quasi totalità delle risoluzioni che compromettevano la sicurezza di Israele. Ieri gli Stati Uniti hanno rotto lo schema.

Qualcosa, come si vede, è cambiato. Per la prima volta dal 7 ottobre, dopo mesi di stallo, il Consiglio di sicurezza ha finalmente approvato una risoluzione che chiede il cessate il fuoco immediato a Gaza. Un cessate il fuoco «durevole e sostenibile» (la Russia aveva chiesto che fosse permanente) che preluda al rilascio di tutti gli ostaggi e il via libera agli aiuti umanitari nella Striscia di Gaza.

La risposta di Israele all’inattesa astensione americana è stata di geometrica simmetria: Netanyahu ha annullato la missione a Washington del consigliere per gli Affari strategici Ron Dermer e di quello per la sicurezza nazionale Tzachi Hanegbi per definire le alternative praticabili all’intervento di terra a Rafah. Come simmetrico è stato il giubilo di Hamas, che nella rinuncia americana al potere di veto intravede – ed è innegabile – una sorta di convalida politica: qualcosa che somiglia molto a una vittoria sul campo. Un campo sul quale giacciono oltre trentamila morti e un numero ancora impreciso di feriti, mutilati, annientati da sette mesi di guerra che ha finito per prevalere mediaticamente sulla strage compiuta il 7 ottobre dagli stessi militanti Hamas sul suolo israeliano.

Del resto, era chiaro da tempo che l’unico leader in grado di fermare il quotidiano massacro di Gaza era proprio quel “Re Tentenna” di Joe Biden, che insieme al peripatetico segretario di Stato Blinken – un vero globetrotter che per mesi ha fatto un’inutile e quasi grottesca spola fra Washington, il Medio Oriente e la sordità congenita di Benjamin Netanyahu – è stato la causa principale dell’inerzia che ha dominato fino a poche ore fa il Palazzo di Vetro.

La decisione di Biden va oltre le considerazioni umanitarie. Ci sono ragioni elettorali (il voto nelle primarie del Michigan, Stato-chiave per la corsa alla presidenza di novembre, ha mostrato il forte disappunto della comunità arabo-americana nei confronti della politica pro-Israele del presidente) e timori di perdere il consenso della forte e altrettanto decisiva minoranza ebraica in terra americana.

Arroccato nel dubbio se rompere con Netanyahu o blandirlo lasciandolo continuare ad agire indisturbato, Biden ha lasciato consumare molta sabbia nella clessidra prima di prendere la decisione sofferta ma più ovvia: prendere le distanze da un premier in caduta libera, di cui l’opinione israeliana stessa (non soltanto madri, mariti, figli, parenti degli ostaggi) diffida, che guida una coalizione di governo francamente impresentabile nonostante il legittimo diritto alla difesa e alla sicurezza. La linea telefonica fra la Casa Bianca e Israele per ora è muta. Ma Joe Biden rimane un presidente filoisraeliano. Lo è storicamente, per formazione politica e convinzione personale. Anche se fino a ieri gli era mancata la fermezza dei suoi predecessori: come Dwight Eisenhower, Ronald Reagan, George Bush senior. Tutti presidenti repubblicani, è vero, che tuttavia hanno saputo arginare Israele nel Sinai nel 1956, nel 1982 in Libano, dieci anni più tardi nei territori occupati.

A volte è necessario farlo, nonostante la storica e inossidabile amicizia fra Washington e l’unica vera democrazia mediorientale. Soprattutto quando interrompere il disastro umanitario prevale su ogni altra possibile considerazione.

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