mercoledì 3 settembre 2014
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Non dobbiamo farci intossicare dal contagocce dell’orrore. La diffusione del nuovo video del terroristi jihadisti che testimonia la decapitazione del giornalista americano Steven Sotloff, rafforza questa consapevolezza. Non possiamo e non dobbiamo farci intossicare da quell’orribile contagocce che abbiamo già visto usare più volte nelle vicende delle nostre società. Di come possa essere utilizzato con cinica ferocia ne sappiamo qualcosa anche noi italiani, ma non c’è dubbio che il modo scelto dai fondamentalisti islamici è particolarmente duro perché ha un’efferatezza antica e nuova rispetto ad altre intimidazioni terroristiche accompagnate da deliberati “sacrifici umani”. Il compito dei giornalisti è però sempre lo stesso, oggi come ai tempi della minaccia dei brigatisti rossi e neri in Italia: riuscire a far capire a chi ci legge, ci ascolta e guarda ciò che sta accadendo nelle sue esatte proporzioni, senza cadere nel tranello dei terroristi e senza dar loro ragione, in nessun modo, neanche veicolando supinamente le immagini che vanno spacciando, senza allinearsi alla forza brutale e terrorizzante di quello che compiono, ma trasmettendone il senso e distruggendo il consenso attorno a quelle violenze oppressive e omicide. In questa maniera, in un passato non troppo lontano, il sistema mediatico ha contribuito alla sconfitta del terrorismo ideologico. Oggi la stessa misura può essere utilissima nella battaglia ingaggiata per sconfiggere il terrorismo fondamentalista islamico, per resistere all’intimidazione brutale - insita nell’orrore che viene rilasciato a dosi cadenzate nel corpo dell’opinione pubblica mondiale – realizzata in Siria e in Iraq e che si vorrebbe portare sin nelle nostre case. I video dei terroristi islamici non vanno mostrati, bisogna piuttosto dare alle persone le ragioni per capire quanto vale questa sfida che non possiamo non vincere. C’è in gioco la civiltà comune, la convivenza tra diversi, la fatica millenaria dello “stare insieme”. La vita dei cristiani e degli altri appartenenti alle minoranze religiose del Vicino Oriente non è mai stata facile, però certamente quello che sta accadendo adesso ha tratti inediti. In più rispetto a orrori sperimentati a tratti anche nel passato c’è la proiezione mediatica enormemente superiore di ogni azione del boia del califfo di turno. È enormemente superiore l’intimidazione che viene realizzata da un’impiccagione o una decapitazione in una piazza mediatica rispetto a quella che si consuma in una pur grande piazza di città, perché ciascuna “esecuzione 2.0” galvanizza in ogni angolo del “villaggio globale” i vicini alla visione e alla pratica jihadista e tende a deprimere, a mettere in condizione di inferiorità difensiva, quelli che sono e si sentono simili alla vittima prescelta come agnello sacrificale. Su questo piano e a questa sfida bisogna saper rispondere: non contribuendo alla strategia propagandistica dei tagliagole del cosiddetto “Stato Islamico” attraverso la diffusione delle immagini dell’orrore, ma dando ugualmente, lucidamente puntualmente conto di tutto ciò che accade. Perché la gente sappia, senza esser consegnata alla grammatica del terrore.
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