Informazione plurale e di qualità
domenica 19 gennaio 2020

Caro direttore,
«Le parole sono pietre», così Carlo Levi scelse di intitolare il suo libro di denuncia sulle condizioni dei contadini siciliani negli anni Cinquanta del Novecento. Ed è vero: possono essere pietre, le parole. Pietre scagliate per colpire, per far male, per ferire. Pietre usate per alzare muri che separino, che escludano, che impediscano l’ingresso agli estranei, agli 'altri'. Ma le pietre possono servire anche a fare il contrario: a unire, a costruire ponti che permettano l’incontro, il dialogo, l’inclusione.

Far sì che sia questo secondo fine, ad avere la meglio sul primo, è un compito che dovrebbe interessare tutti e che certo riguarda molto da vicino gli operatori di un settore, quello dell’informazione, che dell’uso delle parole fa la sua ragion d’essere e la sua prima responsabilità. Una responsabilità grande, perché viviamo in un tempo in cui l’intolleranza e l’odio si fanno sentire e pesano, con le cronache che si riempiono di episodi di razzismo e antisemitismo, di sessismo e omofobia, di bullismo e di atteggiamenti discriminatori nei confronti delle persone disabili.

Con troppi incendiari che dividono tutto in bianco o nero, in bene o male, in amico o nemico. Con una grave e preoccupante crescita, anche all’interno del dibattito pubblico, di una violenza verbale che non va scambiata per una forma d’odio leggera e tutto sommato veniale. Le parole non uccidono fisicamente, però possono uccidere la dignità e il rispetto di una persona. E fanno crescere una cultura che può portare ad azioni escludenti e violente ben più concrete e negative. Una filosofa molto brava, Donatella Di Cesare, sottolineava qualche tempo fa che l’odio è un sentimento che, insieme ad altri, ha accompagnato costantemente l’umanità e la sua storia.

Dunque l’odio è sempre esistito ed esisterà sempre. Nulla di nuovo, allora? No, non è così. Perché ecco la brutta novità che domina il nostro tempo: la fine di ogni ritegno nel manifestare ostilità e disprezzo verso gli altri. Oggi le persone si sentono libere di dire in pubblico cose che fino a poco tempo fa avrebbero avuto vergogna solo di pensare. È come se, scrive Di Cesare, «si fosse entrati nell’età del libero odio. Ogni remora è caduta, si può odiare apertamente », con l’odio che «il più delle volte viene riversato sugli 'altri', tutti quelli che appaiono differenti per aspetto, per credo, per forma di vita».

Ecco dunque che il cosiddetto hate speech, il discorso che fomenta odio, diventa non solo arma politica – anche se poi bisognerebbe chiedersi che politica è, quella che arriva a dileggiare un ragazzo dislessico che esercita solo il suo diritto di critica – ma rischia purtroppo anche di diventare 'cultura' diffusa. In questo la Rete ha un ruolo molto grande, per non dire decisivo. Non è neutrale, perché potenzia il fenomeno, specie quando poggia in maniera perversa sulle fake news e la vera e propria 'industria della falsificazione' che le alimenta. Questo non vuol dire, ovviamente, demonizzare internet e i social. Ma è un fatto che si viene a creare una sorta di scena planetaria dell’odio esibito.

Ecco perché il grande problema è il tipo di cultura che in questo modo cresce e circola all’interno della società. Da una parte 'noi' – per non dire 'io' – e dalla parte opposta 'gli altri'. Puntualmente colpevoli di tutti i problemi e causa essi stessi anche degli episodi che li vedono diventare vittime. E però, allo stesso tempo, ecco anche perché è fondamentale il ruolo che può avere l’informazione, il giornalismo vero, quello onesto, serio e documentato, che affonda le sue radici nei princìpi tante volte richiamati anche dallo stesso papa Francesco, non da ultimo quando ricevette dirigenti e personale di 'Avvenire' per i cinquant’anni dalla fondazione: ascoltare, approfondire, confrontarsi sempre, facendo attenzione «a custodire lo spessore del presente, a rifuggire l’informazione di facile consumo che non impegna, a ricostruire i contesti e spiegare le cause, ad avvicinare sempre le persone con grande rispetto, a scommettere sui legami che costituiscono e rafforzano la comunità».

Tra questi legami io sono convinto che ci possa e debba essere quello tra giornalismo e scuola. Una vera e propria alleanza per il futuro. È il motivo per cui ad esempio abbiamo promosso, nella recente legge di bilancio, una serie di incentivi per l’acquisto da parte delle scuole di abbonamenti a giornali e periodici, così da offrire ai giovani degli strumenti preziosi per la lettura critica e iniziare ad affrontare la vera e propria emergenza nazionale di un Paese dove si legge poco e spesso si comprende male – per primi proprio i ragazzi, raccontano purtroppo i dati – ciò che si legge. L’esito della sfida si gioca qui, in mezzo alle nuove generazioni e nella scuola, come ha sottolineato sulle pagina di questo giornale anche Milena Santerini, che il governo ha appena nominato coordinatrice nazionale della lotta contro l’antisemitismo.

Quella da portare avanti è una battaglia culturale contro ogni forma di discriminazione e di intolleranza, contro ogni atto di odio e di violenza. Se vogliamo che vengano costruiti ponti, e non muri, dobbiamo avere piena consapevolezza del valore e del ruolo dell’informazione. È la strada maestra anche per rafforzare gli anticorpi della nostra democrazia, che per essere forte e compiuta deve avere tra i suoi pilastri la garanzia del pluralismo e dell’imparzialità dell’informazione. È l’imperativo costituzionale ed è il solco al cui interno il Governo si muove e si muoverà nella sua azione di riforma di un settore decisivo per la vita e per il futuro del nostro Paese.

Sottosegretario all’Editoria

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