Infiltrati a fin di bene solo con netti limiti
domenica 10 giugno 2018

Agente provocatore, agente infiltrato, operazioni sotto copertura: sarabanda di espressioni, spesso usate come se fossero tutte equivalenti, dietro le quali prende corpo un dibattito di lunga data, ma ravvivatosi in queste settimane e la cui eco risuona forte mentre ho davanti agli occhi una sentenza del 15 maggio di quest’anno; ultima, per ora, di una non piccola serie di decisioni pronunciate su questi temi dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (causa Virgil Dan Vasile contro Romania).

E vi leggo qualche distinzione che non dovrebbe essere dimenticata. Dice infatti la Corte che non è scorretta l’infiltrazione di agenti della forza pubblica o di loro delegati tra gli autori di un’attività delittuosa in corso, se si tratta di una presenza meramente passiva, unicamente diretta a trarre conoscenze utili a fini investigativi. A essere contraria ai princìpi dello Stato di diritto e a una giustizia penale rispettosa dei diritti fondamentali delle persone è però la figura dell’agente provocatore in senso stretto: quello, cioè, che esercita pressioni al fine della commissione di una condotta criminosa che altrimenti non sarebbe posta in atto, in particolare prendendo lui stesso l’iniziativa del contatto con il potenziale autore o cooperando attivamente alla realizzazione del delitto.

E non importa se lo scopo della provocazione sia quello di far emergere una rete delinquenziale sino a quel momento rimasta sotto traccia: non si può infatti ammettere che lo Stato si faccia esso stesso promotore proprio di crimini del genere di quelli che vuole stroncare. Tra le due forme estreme e ben distinguibili tra loro possono esserci varie situazioni borderline, verso una parte delle quali i giudici di Strasburgo mostrano una certa tolleranza: così, quando l’'infiltrato', pur senza limitarsi a una condotta di mero osservatore passivo e però senza aver sollecitato l’azione delittuosa, viene ad esservi – per usare l’espressione della citata sentenza – semplicemente 'associato': termine, a dire il vero, alquanto ambiguo, ma che può servire per giustificare, tra le 'operazioni sotto copertura', comportamenti come quello di chi finge di fare da intermediario nello smercio di una partita di droga e rende così possibile, con le sue informazioni, il blocco dell’effettiva conclusione dell’affare e l’arresto dei colpevoli.

Sinora, non si danno casi di censure che in argomento la Corte di Strasburgo abbia dovuto pronunciare contro l’Italia (mentre lo ha fatto più volte verso altri Paesi); del resto, la nostra legislazione, e ancor più la giurisprudenza, sono tradizionalmente aliene dal lasciare varchi alla legittimazione del 'provocatore' in senso stretto; in armonia con direttive dell’Unione Europea e convenzioni internazionali, operazioni 'sotto copertura' sono bensì consentite per agevolare le indagini relative a particolari tipi di reato o impedirne la realizzazione (tali, tra gli altri, quelli di mafia, di terrorismo o di grande traffico di stupefacenti) e ciò può comportare, non solo l’autorizzazione, ad appartenenti alle forze dell’ordine, a commettere delle infrazioni, per così dire, 'minori', alla legge penale come la falsificazione di documenti d’identità (senza di che – lo si intuisce al volo – la stessa 'infiltrazione' sarebbe impossibile) ma anche il compimento di azioni, all’apparenza 'cooperative', rientranti in quell’area borderline di cui si è detto: il tutto, però, non senza che siano fissati consistenti 'paletti' contro possibili arbitrii, specialmente mediante l’imposizione di stretti controlli della magistratura sulle modalità delle operazioni.

Dal canto loro, le norme processuali dovrebbero garantire contro usi delle informazioni acquisite, che eludano il rispetto del contraddittorio quale principio-base per la formazione delle prove penali: quelle informazioni, dunque, potranno sì servire per costruire un impianto accusatorio contro chi ne resti colpito, ma non sorreggere in quanto tali la sua condanna, diventando, in particolare, inutilizzabili se l’identità dell’infiltrato debba essere mantenuta nascosta per non 'bruciarlo' e la difesa dell’imputato, perciò, non possa esercitare fino in fondo il diritto di rivolgergli contestazioni.

Ce n’è quanto basta perché si debba chiedere estrema chiarezza sugli sviluppi di quanto si legge in proposito nel 'contratto' posto alla base programmatica dell’attuale Governo, che al campo della lotta alla corruzione estende in duplice modo la possibilità di un ricorso a 'infiltrati': vi si parla infatti, da un lato, di «introduzione della figura dell’'agente di copertura'» e dall’altro di «valutazione della figura dell’agente provocatore in presenza di indizi di reità».

Ancora un po’ poco per capire dove si andrà a parare; e abbastanza per giustificare riserve come quelle avanzate, tra gli altri, dal rappresentante dell’Autorità nazionale anticorruzione, Raffaele Cantone. Dalle poche parole che il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha dedicato in Senato alla questione – menzionando le sole operazioni 'sotto copertura' – parrebbe trasparire l’intenzione di contenere entro limiti di prudenza un eventuale intervento normativo; ma tra lo scritto, il detto e il non detto c’è spazio per un’ampia gamma di soluzioni. Ha anche affermato il professor Conte, in termini generali, che circa il suo programma di governo non gli si potevano chiedere subito troppi dettagli. I dettagli, però, sono poi necessari ed è lì che, come si suol dire, riesce talvolta a insinuarsi la coda del diavolo. Forse meglio pensarci per tempo.

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