mercoledì 27 aprile 2022
Il caso della Catalent di Anagni, con il recente trasferimento delle attività in Gran Bretagna, è solo l’ultimo tassello di una serie di errori strategici commessi negli anni
Trent’anni fa il triste epilogo della Farmitalia Carlo Erba, industria italiana, che aveva acquisito rinomanza internazionale negli anni 60 con la produzione dell’Adriamicina Diverse vicende devono fare riflettere sulla nostra incapacità istituzionale di valorizzare un comparto economico e scientifico

Trent’anni fa il triste epilogo della Farmitalia Carlo Erba, industria italiana, che aveva acquisito rinomanza internazionale negli anni 60 con la produzione dell’Adriamicina Diverse vicende devono fare riflettere sulla nostra incapacità istituzionale di valorizzare un comparto economico e scientifico - .

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Un’opportunità persa. E non è la prima volta. Una vicenda che purtroppo si ripete. Simile anche se non identica ad altre già accadute in passato. A dimostrazione che la storia, che dovrebbe essere sempre 'maestra di vita', è sovente ignorata (perché non conosciuta o stoltamente non considerata). È di pochi giorni fa la notizia che il polo farmaceutico del Lazio perde in un colpo solo l’istallazione di otto bioreattori (apparati altamente sofisticati indispensabili per la produzione di vaccini – in particolare gli anti-Covid – e di farmaci biologici) e un investimento di oltre 100 milioni di dollari per la ricerca farmacologica avanzata. Sfumano così anche 100 posti di lavoro altamente qualificati e l’opportunità di diventare il primo centro per la produzione di biofarmaci in Italia, consolidando un ruolo di punta nel mercato europeo e mondiale (Pietro Saccò ne ha scritto su Avvenire il 21 aprile: tinyurl.com/anafar)

La multinazionale farmaceutica Catalent di Anagni, dopo avere aspettato mesi l’autorizzazione all’installazione delle nuove apparecchiature, di fronte a questa barriera burocratica 'invalicabile' ha deciso di spostare nel Regno Unito investimenti e produzione. Un cambiamento radicale di prospettiva avvenuto solo un anno dopo l’acquisto da parte di Catalent nel 2020 dello stabilimento di Anagni da Bristol Myers Squibb, con la ferma intenzione di passare dal precedente semplice lavoro di riempimento e confezionamento di farmaci a quello della ricerca e della produzione biofarmacologica. L’impianto laziale era già in quel periodo un’eccellenza internazionale, detenendo il record di essere il più rapido al mondo per l’infialamento dei prodotti. Infatti qui venivano confezionati i vaccini anti-Covid prodotti all’estero di Astra-Zeneca, di Jhonson & Jhonson e di Moderna. Ma il 'salto di qualità' legato al passaggio da semplice stabilimento confezionatore a innovativa industria di ricerca e di produzione non si farà per la miopia politica nazionale in questo settore.

L’incapacità di comprendere il valore strategico del comparto farmaceutico è una costante ricorrente nel nostro Paese. Come non ricordare infatti la vicenda del triste epilogo, trent’anni fa, della Farmitalia-Carlo Erba? La parabola storica di questa industria italiana, che aveva acquisito rinomanza internazionale negli anni Sessanta con la produzione dell’Adriamicina (a tutt’oggi uno dei più importanti farmaci antitumorali), rappresenta l’esempio più emblematico – purtroppo non unico – di come un patrimonio di capacità imprenditoriale e un’esperienza pluriennale di ricerca di alto livello possano essere stoltamente dispersi se manca, a livello nazionale, la consapevolezza del valore scientifico innovativo dell’industria farmaceutica in assenza di una lungimirante politica del farmaco. La Farmitalia nasce nel lontano 1935 per opera di Guido Donegani, abile e dinamico presidente della Montecatini.

Nel dopoguerra la scoperta e la commercializzazione, nel 1968, del nuovo antitumorale porta la ricerca italiana in primo piano a livello internazionale, facendo gridare a un 'miracolo farmaceutico' che sembra affiancarsi a quello 'economico' che caratterizza l’Italia in quel decennio. Insieme alla ricerca s’internazionalizza anche l’espansione commerciale e, sulla scia delle concentrazioni industriali che ormai iniziano a interessare un numero crescente di aziende medie e grandi, nel 1978 avviene la fusione con la Carlo Erba, un’antica industria farmaceutica milanese nata nel 1853. La nuova società costituisce il più grosso complesso industriale chimico- farmaceutico italiano e rappresenta anche il 'polo farmaceutico' della Montedison, la maggiore società chimica nazionale, a capitale misto privato e pubblico – attraverso l’Eni – nata nel 1966 da un’altra fusione, quella della Edison con la Montecatini. Nel 1983 la Farmitalia-Carlo Erba entra a far parte dell’Erbamont, l’holding costituita dal gruppo Ferruzzi (divenuto nel frattempo azionista di maggioranza della Montedison) per coordinare tutte le attività del gruppo dedicate alla farmaceutica.

Sono questi anni cruciali per l’industria del farmaco: da un lato i Paesi più attenti si rendono conto del valore strategico della ricerca farmaceutica, punta di un iceberg destinato a diventare sempre più grande con le applicazioni della nascente biologia mo-lecolare, cercando in vari modi – anche a livello politico – di favorirla; dall’altro inizia nel mondo quel processo di globalizzazione da parte delle multi- nazionali del farmaco attraverso l’acquisizione delle 'piccole' industrie nazionali che costituirà il preludio alle maxifusioni degli anni Novanta che daranno poi origine alla 'big pharma'.

Distratto prima dalle controversie politiche e stordito poi, a partire dal 1992, dal cataclisma di Tangentopoli che proprio a Milano ha il suo esordio (e che raggiungerà l’apogeo pochi mesi dopo con Farmacopoli), il Paese non si rende conto che, svendendo la Farmitalia-Carlo Erba alle multinazionali del farmaco, la Montedison rischia di lasciarsi portar via un 'gioiello di famiglia' e l’Italia di perdere un’azienda strategicamente essenziale per la sua permanenza in un settore d’avanguardia come quello farmaceutico. Difficoltà istituzionali, problemi economici, miopia politica e insensibilità culturale portano all’inevitabile, che accade nel 1993: la Montedison vende alla svedese Procordia la Farmitalia- Carlo Erba, che viene così incorporata nel grande gruppo farmaceutico straniero Kabi-Pharmacia, acquistata a sua volta nel 2002 dalla Pfizer, che due anni dopo si defila, innescando un’altra vicenda di scarsa lungimiranza legata alla politica farmaceutica italiana.

È la storia, complessa e poco esaltante, dell’attuale Nerviano Medical Sciences Group, nato nel 1965 nel piccolo centro alle porte di Milano come braccio di ricerca oncologica proprio della Farmitalia e poi, dopo gli innumerevoli 'cambi di proprietà' dell’industria meneghina, coinvolto in numerosi avvicendamenti sino a essere acquistato nel 2010 dalla Regione Lombardia e in seguito, nel 2016, dalla multinazionale Teva, ma ancora oggi al centro di polemiche e difficoltà per mancanza di investimenti. Vicende, queste, passate e presenti, che devono fare riflettere sulla nostra incapacità istituzionale di comprendere come il comparto farmaceutico sia oggi (pandemia insegna) un settore strategico di fondamentale valore per lo sviluppo scientifico ed economico di un paese.

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