lunedì 14 luglio 2014
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​«O juremos con gloria callar». Con gloria tacere. Ecco. Sì, tacere si potrebbe, parafrasando l’inno argentino. Dopo l’umiliazione patìta dal Brasile, non sono pochi quelli come me ai quali costa rassegnarsi alla finale dei Mondiali di questa sera. Piuttosto che accodarmi alle seriali speculazioni giornalistiche, cui assistiamo in questi giorni, preferisco perciò pensare con i piedi. Quelli dei racconti fantastici di Osvaldo Soriano, penna di squisita sagacia intinta nella finezza dell’humor. Soriano è lo scrittore argentino appassionato del calcio (che giocò da centravanti in Patagonia), trasformato in epiche storie di rigori interminabili e mondiali mai disputati. Come pochi altri ha saputo descrivere la società argentina e presentare il calcio per quello che veramente è: una forma d’arte popolare. Ho ripreso così il suo Pensare con i piedi anche per il ricordo di una circostanza di qualche anno fa, quando ancora non importava di sapere per quale squadra tifasse Jorge Mario Bergoglio. In una delle sue brevi soste nella Città eterna, il futuro Papa era stato invitato da un’attenta e aperta insegnante di lettere del liceo romano Cavour per far conoscere ai suoi ragazzi la realtà delle Villas miseria, i quartieri più poveri di Buenos Aires. E fu forse l’unica scuola in Italia dove il cardinale Bergoglio mise piede in quegli anni. Riscosse un sincero interesse da parte dei ragazzi, e vista l’efficacia delle parole con le quali si era fatto ascoltare la professoressa non esitò a prendere carta e penna per ringraziarlo. Nella lettera gli scrisse che aveva messo a segno un gol, imprevisto, e per dire della sorpresa suscitata nei ragazzi citò proprio uno dei racconti calcistici immaginari di Soriano. È il racconto di un incredibile Mundial disputato tra la Germania e la squadra degli indios in Patagonia. La finale si prefigurava scontata per i tedeschi, ma un imprevisto sconvolse lo stato delle cose: le porte d’improvviso sparirono per poi magicamente ricomparire, giusto il tempo di permettere agli indios di infilare un’impensabile vittoria. Per lo scrittore voleva essere la prova di come, «per quanto i tecnocrati lo programmino persino nei minimi dettagli, per quanto i potenti lo manipolino e lo trasformino in mercanzia, il calcio continua ad appartenere al popolo e all’imprevisto». E non c’è qui bisogno di scomodare Jean-Paul Sartre per dire che il calcio è metafora della vita. Una volta sentii dire da Bergoglio una frase che feci diventare una massima: «La vita è come la palla in un campo da gioco: bisogna prenderla dalla parte che viene».Per anni ho pensato che lo sport da lui preferito fosse il basket, non foss’altro perché più di una volta aveva ricordato quando da giovane giocava a questo sport e perché regolarmente arrivavano a casa via aerea buste con dentro ritagli di articoli sulle partite di basket d’oltreoceano destinate a mio figlio, che a quel tempo inanellava vittorie come pivot nella squadra giovanile del quartiere. Era il modo discreto di far sentire la sua vicinanza e il suo incoraggiamento a un ragazzino affinché praticasse uno sport di squadra, calcio o basket o altro che sia, nella convinzione della sua funzione educativa e dell’aiuto a crescere nella collaborazione: «Perché non c’è individualismo, ma tutto è coordinazione per la squadra... e questo fa bene alla società, costruisce il bene comune». È stato, fin qui, in questa prospettiva il tenore di tutti i suoi interventi sul tema dello sport nel corso del pontificato. «Per arrivare bisogna correre insieme e si avanza insieme finché si arriva alla meta... Mettetelo in pratica nella vostra vita e pregate per me perché anch’io con i miei collaboratori facciamo una buona squadra e arriviamo alla meta». «È tipico dell’attività sportiva unire e non dividere! Fare ponti e non muri!», ha affermato ancora, e anche nel tweet di ieri ha ribadito: «Possa lo sport favorire sempre la cultura dell’incontro».Così si ridimensiona tutta la bolla mediatica che per giorni ha disegnato il Vaticano in versione Bar Sport e sparato titoloni sulle presunte trepidazioni calcistiche e le contrapposizioni nord-sud nel «derby dei due Papi». E rimangono ancora una volta fuori campo le meno innocenti malizie di qualche esegeta disposto pure a usare una partita di calcio per mettere in gara, contrapponendoli, il Papa regnante e il suo predecessore. Non c’è, e non ci sarà, alcuna sfida a due in Vaticano.E se sarà Lionel Messi o Philipp Lahm – i capitani di Argentina e Germania – a sollevare la Coppa del mondo al Maracanà, Francesco lo saprà solo domani mattina, perché questa sera non vedrà la finale. A quell’ora si va a letto. Il Papa non è un indio mapuche. È il Papa, ed è uno. Da sempre.
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