martedì 10 maggio 2011
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Sono arrivati da Manduria venerdì notte, fortemente provati. Una donna, vicina al parto, ha interrotto il viaggio a Pescara e arriverà in seguito, con altri tre familiari. Il centro montano ligure che ha accolto i profughi è stato attrezzato in gran fretta e la prima notte, mancando il riscaldamento, si è faticato a trovare coperte per tutti. Sono 37 persone, tra uomini, donne e bambini (il più piccolo di 8 mesi). Molti i nuclei familiari al completo. Sono tutti giovani o giovanissimi (il più 'anziano' ha 33 anni) e provengono dall’Africa sub-sahariana. Dopo una giornata di controlli medici, nella piccola comunità sono stati suddivisi i compiti: gli uomini accudiscono i bambini, le donne, dopo aver fatto il bucato, hanno chiesto scope e hanno svolto le pulizie nella casa. I cattolici (sono la maggioranza) hanno chiesto la Messa. Così sono stato interpellato io, amico del Centro, e la mia ultima celebrazione del pomeriggio è stata con i profughi e i volontari che li assistono. Parecchi sono arrivati con il libro delle preghiere e dei canti, conservato tra le cose – veramente poche – salvate durante la traversata per Lampedusa. Giocoforza, la nostra celebrazione è bilingue. In inglese eseguono il canto iniziale: un solista dà l’avvio al coro, il ritornello ripete struggente «Alla tua presenza Signore…», le mani battono il ritmo, mentre i corpi si muovono in un accenno di danza. Le letture pasquali sembrano pensate per questo momento. La lettera di Pietro ci invita a considerarci stranieri in questo mondo e io devo sottolineare che l’invito vale anzitutto per me e per gli italiani presenti: noi in Patria, i profughi lontani dalle loro Patrie, ma tutti obbligati – se siamo veri credenti – a ricordarci che la Patria è provvisoria e che lo straniero deve diventare nostro concittadino. Poi lo Sconosciuto, il Forestiero che nel Vangelo ha fatto un tratto di strada con i discepoli di Emmaus, ci ha ricordato come si riconosce il volto di Cristo: spezzando insieme il pane, quello spirituale e quello materiale. Mi è venuto spontaneo fare a questa gioventù, ricchezza dell’Africa che si disperde nel mondo, un cenno al convegno a Genova ha riunito «atei, agnostici, umanisti, razionalisti». Qual è il Dio che essi rifiutano? Da quale Dio sentono minacciata la loro vita e la loro intelligenza? Non è certo il Dio di Emmaus quello che devono temere. Il Dio che si è rivelato nella piena umanità di Gesù, si affianca al nostro cammino amichevole e non invadente, si informa partecipe sulle nostre speranze e sulle nostre delusioni, dialoga e condivide senza imporli pensieri e visioni profonde, ci lascia liberi di continuare il nostro cammino o di fare la nostra sosta da soli. È il Dio rivelatosi in Gesù che ci ha insegnato ad aprire le porte di questa casa, a preparare l’accoglienza, a viverla in condivisione. Il «Padre nostro», che gli amici africani recitano in inglese, non ha nulla dei nostri toni volte trionfali: con le palme rivolte verso l’alto, lo recitano come una preghiera mormorata a un Padre vicino e in ascolto. Sono ancora loro che chiudono con il canto, strofe di ringraziamento e di lode, ma ancora appesantite dalle fatiche e dalle incertezze dei giorni passati. Domani condivideremo con questi uomini e con queste donne anche qualche parola di italiano, perché possano cavarsela meglio con le pratiche per ottenere lo statuto di rifugiati, perché possano sfruttare al meglio le opportunità di questa sosta. Intanto, questa sera, anche noi siamo Emmaus, anche a noi questa sera si è rivelato il volto dello Sconosciuto.
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