Abruzzo, il sole sull'inverno della nostra angoscia
giovedì 2 febbraio 2017

Un’ala nera è passata sull’Abruzzo; e noi che viviamo in questa regione speriamo di poter dire: è passata. Da dicembre l’abbiamo vista posarsi e indugiare qui con una serie di tragedie, anche indipendenti tra loro, che i contraccolpi in successione nel cuore hanno collegato. Eccone il racconto, che avvertiamo l’esigenza di scrivere avendo recuperato voce per farlo, come sperando di allontanare da noi un peso. L’inverno non del nostro scontento, bensì della nostra angoscia è iniziato prima di Natale con la morte nell’attentato di Berlino di Fabrizia, la dottoressa di Sulmona travolta dal tir assassino tra le bancarelle di Breitscheidplatz. Non c’entra col maltempo, ma ha aperto la serie. Dopo il rimpatrio della salma e i funerali di Fabrizia, per un po’, prima di Capodanno, non è successo niente ed è stata l’ultima fase relativamente tranquilla, scandita solo dagli allarmi meteo sull’avvicinamento del burijan, il gelido vento dell’est che noi abruzzesi sappiamo abbattersi qui ogni tot anni, a gennaio e che siamo abituati a gestire, pur nella sua durezza. È arrivato infatti, in sordina, poco prima dell’Epifania. La vita si è contratta piano piano, poi si è fermata. Poi è arrivata la tragedia dell’Hotel Rigopiano, come un disaster movie degli anni 70. Impensabile. Incredibile. Quanti sono gli stabili travolti da una valanga? Della percezione collettiva fanno parte la tragedia del Vajont col cedimento della diga e l’immane strage nei borghi a valle; i campeggi travolti all’estero e in Italia – da improvvise piene di fiumi; le abitazioni e gli stabilimenti balneari mangiati dalle mareggiate; le frane e gli smottamenti sulle carreggiate; i sottopassi qualche volta trasformati dalla pioggia in mortali forre d’acqua.

Ma chi non si è chiesto – a mano a mano che l’incredibile diventava credibile: come è possibile che su un albergo si sia abbattuta una valanga? Ora Rigopiano – bisogna spiegare – non è una località qualsiasi per noi. È – era – una località gioiosa. È il punto più alto, a ridosso della costa pescarese-teramana, dove le ultime propaggini del Gran Sasso degradano, attraverso spettacolari tornanti tra i boschi, verso il mare, incontrando a Farindola il primo borgo abitato di una certa consistenza. Rigopiano non è un paese, è una località sui monti, dove vengono portate le scolaresche a fare gite naturalistiche; dove i ragazzi vanno in macchina appena presa la patente, a fare le prime scampagnate da soli; dove si sale d’estate per non boccheggiare nell’afa della pianura. E dove, appunto per la bellezza del luogo, era stata costruita la spa-gioiellino, all’ingresso di una stretta valle, con ripidi pendii tutt’intorno. Per questo è diventata una tomba. Da ore, nel giorno della tragedia, gli ospiti e il personale della spa avevano capito che la struttura stava venendo circondata e isolata dalla neve, per cui chiedevano che qualcuno arrivasse lassù a prenderli. Non ce l’hanno fatta, sono rimasti bloccati fino a quando l’albergo gli si è rovesciato addosso trascinandoli con sé. Il miracoloso salvataggio dei bambini e di qualche adulto nelle prime due giornate ha fatto sperare che ci fossero altri sopravvissuti, ma tutti gli altri dentro erano morti.

Poi un elicottero, con persone ch’erano state anche tra i soccorritori di Rigopiano, è precipitato a Campo Felice (triste nome) nell’Aquilano, facendo sei vittime. Né vanno dimenticati gli altri morti, sparsi in vari paesi, per assideramento, per avvelenamento da monossido di carbonio, per impossibilità di ricevere un farmaco salvavita, per essersi avventurati nella neve. Quasi quaranta vittime, nel complesso. È finita? Non lo sappiamo ancora. Ci svegliamo ogni giorno con questo pensiero. Ci sentiamo vulnerati. Come in un film, abbiamo sentito nominare decine di volte, associati a lutti, nomi a noi familiari Rigopiano, Farindola, Penne, Pescara; riconosciuto in tv luoghi noti, in una continua cronaca violativa di un’intimità, negatoria di un’identità, come con sgomento l’abbiamo avvertita. È finita? Non osiamo dirlo ancora. Adesso il cielo è terso; sui luoghi dei funerali – con le salme riportate nei tanti paesi dai quali i gitanti si erano mossi, con percorsi ognuno diverso dall’altro, ma tutti accomunati dall’idea di una vacanza, da un progetto di allegria, per convenire invece al luogo di un’unica morte – è tornato a splendere un bellissimo sole, tipico dell’Abruzzo. Le giornate stanno allungandosi. Una parte (dentro) di noi si ferma un attimo, a chiedersi: è successo davvero?

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