martedì 28 giugno 2016
​L'Unione Europea in panne è guidata da forze social-liberali radicalizzate.
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Fra le interpretazioni del voto con cui gli elettori britannici si sono espressi in favore dell’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, due angolature diverse sono possibili: quella che guarda alle cause specificamente britanniche (e soprattutto inglesi) della Brexit e quella che ne cerca le ragioni nella «costituzione materiale» dell’Unione Europea, ovvero nelle forze sociali e politiche in questa dominanti. Senza sottostimare il primo ordine di ragioni, la seconda prospettiva – quella europea – consente di collocare il voto di giovedì scorso in una ormai lunga serie di segnali di disaffezione inviati dagli elettori di alcuni Stati membri alle istituzioni comunitarie: così, oltre alla scarsa partecipazione alle elezioni del Parlamento europeo e ai vari successi ottenuti in tempi recenti da forze politiche classificabili come 'euroscettiche', il voto britannico ha alcuni antecedenti nei referendum tenuti in Danimarca sul trattato di Maastricht, in Irlanda sui trattati di Nizza e Lisbona e in Olanda e Francia sul Trattato costituzionale, fino al recente referendum olandese contro la concessione dello status di Paese associato all’Ucraina. Una serie di insuccessi a catena per la causa dell’integrazione europea. Certo, non sono mancati segnali di tipo opposto e in particolare i referendum per l’adesione all’Ue hanno tradizionalmente dato esito positivo in tutti i Paesi in cui si sono tenuti, con l’eccezione dei due referendum norvegesi del 1972 e del 1995, legati a condizioni particolari. E anche negli Stati fondatori, in tempi meno recenti, l’elettorato si è pronunciato per una maggiore integrazione europea (l’Italia nel 1989 col referendum sul conferimento di poteri costituenti al Parlamento europeo, la Francia nel 1992 sul Trattato di Maastricht). Ma in questo scenario complesso, i segnali più recenti sembrano più negativi che positivi. A che cosa si oppongono gli elettori europei quando vengono consultati? Anche se le ragioni di ogni voto referendario sono sempre complesse, si può ipotizzare che oggi sia in crisi un progetto egemonico (gramscianamente inteso, si sarebbe tentati di dire), di cui le istituzioni europee, nate in un altro contesto, sembrano essere divenute strumento negli ultimi due decenni. Queste istituzioni (in particolare la Commissione e la sua burocrazia), che appaiono spesso distanti dai cittadini degli Stati membri, sembrano espressione di un disegno culturale social-liberale. Si tratta, dunque, di un progetto politico, sicuramente interno alla tradizione della democrazia occidentale, ma ristretto solo ad alcune delle componenti di quest’ultima, di cui ha 'tagliato' non solo le ali estreme, per definizione anti-europee (comunismo e fascismo), ma anche altre componenti, da quella democristiana (pur decisiva al momento della fondazione, come dimostrano i nomi di De Gasperi, Adenauer e Schuman) a quella galassia che si potrebbe rozzamente definire 'socialismo di sinistra', oltre che ai nazionalismi democratici e alle correnti conservatrici, sia della vecchia che della nuova Europa (dai Tories britannici al Partito Diritto e Giustizia in Polonia, per non citare che due esempi). La base politica dell’Europa dovrebbe stare nelle forze politiche mainstream, dominanti negli Stati, ma l’egemonia tedesca (della Germania e dei suoi alleati, dall’Austria all’Olanda, dal Belgio ad alcuni Paesi nordici) ha ristretto questa base all’equivalente dei socialdemocratici tedeschi (assai moderati in materia economica, anche se progressisti sui diritti civili) e ad una democrazia cristiana che, nell’era Merkel, ha attenuato la sua componente popolare renana e prevalentemente cattolica, in favore dell’elemento protestante e sempre più nettamente secolarizzato, divenuto prevalente con la riunificazione (e di cui l’attuale Cancelliera è il simbolo). Le stesse forze politiche francesi appaiono più comprimari che co-protagonisti in questo scenario, mentre dopo la fine della Dc la rappresentanza europea dell’Italia è stata indebolita dalla sua difficoltà di collocarsi in maniera incisiva nelle alleanze politiche continentali. Dietro questa ristretta coalizione politica sta una base sociale non ampia: il progetto egemonico di cui qui si ragiona non riesce a includere gli sconfitti della globalizzazione e offre riconoscimento solo a chi ha abbracciato fino in fondo i valori 'radicali' (in senso italiano) prodotti dal Sessantotto, che tendono a costituire l’ideologia costituzionale dell’Europa contemporanea (si pensi a quelli che alcuni anni fa si soleva definire in Italia 'temi etici': famiglia, inizio e fine vita, ecc.). I ceti urbani legati alle nuove professioni (i vincenti della globalizzazione) sono la base dell’alleanza sociale che sorregge il progetto egemonico in questione. E la voce di esso è la grande stampa liberal – da 'Le Monde' a 'El País', da 'Repubblica' al 'Guardian', da 'Gazeta Wyborcza' alla 'Süddeutsche Zeitung' – che legge il nostro tempo con una sorprendente uniformità di categorie, pronta a classificare come 'euroscettico','ultracattolico' o 'sinistra radicale' tutto ciò che può mettere in discussione il progetto egemonico, la sua base sociale e la sua summa ideologica. La Brexit può essere letta anche come un 'no' a questo progetto, oltre che a molte altre cose. Ma se questa ipotesi ha qualche fondamento, dalla crisi dell’Europa si può uscire solo ristrutturando e allargando quel progetto egemonico, che non è certo autoritario, ma che ha assunto tratti arcigni e invasivi e che invece va reso più aperto alle diversità nazionali, guardando ai patriottismi nazionali e locali come a una ricchezza e non come una minaccia, valorizzando l’apporto delle grandi correnti ideali e spirituali che hanno fatto l’Europa. E ampliandone la base sociale: quel progetto, in fondo, fa dell’inclusione il suo slogan, ma oggi non è affatto inclusivo.
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