martedì 20 giugno 2017
Doha resiste con un ponte aereo via Turchia e Iran e nuove rotte marittime con i porti dell'Oman. La rottura con Riad forse dovuta a un maxi-riscatto pagato a al-Qaeda e a Teheran
I grattacieli di Doha, capitale del Qatar. Nel mirino dell'embargo sunnita c'è anche la tv al-Jazeera (Ansa)

I grattacieli di Doha, capitale del Qatar. Nel mirino dell'embargo sunnita c'è anche la tv al-Jazeera (Ansa)

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La crisi del Qatar sembra destinata a passare alla storia come una delle maggiori gaffes politiche degli Stati Uniti d’America in Medio Oriente. Ufficialmente, lo scorso 5 giugno, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrain ed Egitto – seguiti poi da Yemen e Isole Maldive – hanno notificato al Qatar l’accusa di sostegno ad organizzazioni terroristiche islamiste e di connivenza con l’Iran. Al momento, dunque, non ci sono più scambi commerciali e trasporti attivi fra il Paese imputato e quelli accusatori. Idem per le transazioni bancarie. La manovra è condita da forme di sciacallaggio di mercato: «Benvenuto al personale della Qatar Airways airbus A320», si legge in un tweet di Flynas, compagnia aerea saudita che sta cercando di reclutare piloti e personale di terra di Q.A. A Doha non resta che mantenere le posizioni, ostentando sicurezza: «Non c’è alcuna crisi di liquidità, il livello è buono e risponde alle esigenze della clientela, e le operazioni bancarie nello Stato continuano normalmente, sia a livello locale sia riguardo alle transazioni fra banche locali ed estere», ha reso noto il governatore della Banca centrale del Qatar, lo sceicco Abdallah ben Saoud al-Thani. Rasserenare correntisti ed investitori è vitale: non appena Abu Dhabi ha ordinato alle proprie banche di sospendere le operazioni con quelle qatarine, subito a Doha si sono sparse voci sulla rarefazione dei dollari circolanti, cioè la moneta utilizzata per le rimesse dai lavoratori stranieri nel Paese.

Nel frattempo, il ministro dell’Economia Ahmed bin Jassim al-Thani, in un’intervista ad al-Jazeera English, si è detto certo che il sultanato riuscirà a mantenere lo stesso (lussuoso) standard di vita attuale per i suoi residenti. Tonnellate di derrate alimentari stanno giungendo nel Paese per via aerea da Turchia e Iran, subito accorsi in aiuto del Qatar. Quanto ai Mondiali di calcio 2022, i cui cantieri edili potrebbero subire forti rallentamenti se venissero a mancare i materiali, nuovi collegamenti marittimi fra i porti omaniti di Sohar e Salalah e quello qatarino di Hamad stanno già funzionando a pieno ritmo per evitare l’impasse. Poi, c’è il dossier idrocarburi: il Qatar è il maggiore esportatore di gas al mondo. Nessuno può quantificare lo choc per il mercato globale se la crisi non rientrasse. E lo stesso vale per il greggio, il cui prezzo mercoledì 14 ha subito un’impennata per poi abbassarsi di colpo.

Insomma, Washington ha innescato intenzionalmente tale spirale? Si direbbe di no, a giudicare dall’ultimo colpo di scena statunitense, datato 15 giugno: il segretario alla Difesa, James Mattis, ha firmato un accordo con il suo omologo qatarino, Khalid al-Attityah, per la vendita di 36 caccia F-15 a Doha. L’accordo, che ammonta a circa 11 miliardi di euro, è stato reso noto dal Pentagono. L’intesa, si legge nella nota pubblica, «darà al Qatar competenze all’avanguardia e aumenterà la cooperazione e la collaborazione tra Qatar e Stati Uniti in materia di sicurezza». Eppure, Trump aveva salutato la decisione dei Paesi del Golfo come «l’inizio della fine dell’orrore del terrorismo». Mattis e il segretario di Stato Rex Tillerson, invece, continuano a lavorare (insieme alla diplomazia kuwaitiana) per appianare le tensioni con il Qatar, che, nella base di al-Udeid, ospita il quartier generale del Comando centrale statunitense nella regione.

Mentre a Washington, dunque, si naviga a vista in politica estera, il dietro le quinte arabo è altrettanto incerto. Quasi degno di una soap opera. La narrazione di fonti diplomatiche e giornalistiche si intreccia. A quanto emerso da indiscrezioni di stampa, solo a Riad e al Cairo preme davvero di mettere in un angolo lo scomodo membro del Consiglio di cooperazione dei Paesi del Golfo a causa della sua amicizia con la Fratellanza musulmana, mai smentita. Persino gli Emirati – che secondo indiscrezioni avrebbero fornito a Roma una lista nera di qatarini sostenitori dello jihadismo – non sono compatti: Dubai non sta rispettando l’embargo anti-Qatar al pari di Abu Dhabi.

Ma le pressioni di Riad non si limitano alla penisola araba: ne sono vittime anche i Paesi africani a maggioranza musulmana, cui è stata prospettata la possibilità di un blocco dei visti per i pellegrinaggi alla Mecca se non aderiranno all’embargo economico nei confronti di Doha. La stampa africana rivela manovre diplomatiche febbrili: la minaccia di uno stop ai finanziamenti economici promessi avrebbe convinto la Mauritania a schierarsi contro Doha. Idem per il Ciad. Le autorità nigeriane, invece, sarebbero intenzionate a mantenersi indipendenti. Da giorni, però, un’altra versione dei fatti sta prendendo piede. All’origine del divorzio fra Riad e Doha non ci sarebbe l’input americano, quanto piuttosto un’intricata vicenda in salsa beduina: per liberare 26 membri della famiglia reale al-Thani, rapiti nel Sud dell’Iraq nel dicembre 2015 (in un’area di confine con l’Iran in cui spadroneggiano milizie sciite) durante una battuta di caccia con il falcone, Doha ha sborsato, a metà aprile di quest’anno, 1 miliardo di dollari di riscatto.

Un fiume di denaro finito – ed è questo il passaggio dubbio – sia nelle casse di miliziani vicini ad al-Qaeda sia in quelle iraniane, in combutta fra di loro. Tale mega-finanziamento ai peggiori nemici di Riad, insomma, avrebbe fatto sbottare il casato Saud. Il primo ministro iracheno Haider al-Abadi ha confermato in tv domenica 11 giugno che centinaia di milioni di dollari in contanti – giunti in Iraq a bordo di un jet privato, divisi in valigie e scortati da due emissari qatarini – si trovano nel caveau della Banca centrale irachena dal 14 di aprile e che essi fanno parte di un accordo per la liberazione degli ostaggi. Ma, ha garantito, «non un dollaro o euro è stato speso». Al-Abadi ha detto che l’utilizzo del denaro sarà frutto di una decisione politica, senza aggiungere alcun dettaglio sull’identità dei rapitori. Ha confermato però che i 26 membri della casa reale sono stati usati come scudo umano dai terroristi.

Dietrologia a parte, pare che Riad chieda, per far rientrare la crisi, la 'testa' di al-Jazeera, network televisivo di indubbio successo planetario e altrettanto indiscussa ambiguità nei confronti dell’islamismo radicale. Per gli al-Thani, «al-Jazeera non si tocca», si legge sul sito inglese dell’emittente. Non che i Saud non abbiano liaisons dangereuses con il medesimo ambiente di tagliagole, ma il Qatar, da troppo tempo scheggia impazzita del fronte arabo sunnita, non conosce freno, né in Libia né in Siria, scenari in cui non ha mai cessato di sostenere gruppi islamisti. I primi effetti della sua messa all’angolo non sembrano però quelli auspicati, con il piccolo sultanato sempre più vicino politicamente ed economicamente a Teheran, attenta a intercettare una ghiotta opportunità di indebolimento dei nemici sunniti.

E la Turchia di Recep Tayyep Erdogan? Messa sotto accusa per la deriva totalitarista iniziata dopo il tentato golpe del luglio 2016, Ankara non ha esitato ad offrire sostegno militare alla monarchia al-Thani, altrettanto sulla graticola. Insomma, l’amministrazione Trump rischia non solo di spaccare il blocco sunnita quando invece avrebbe voluto cementificarlo, ma pure di fare dell’Iran quella potenza regionale che non è ancora riuscito a diventare, spingendo fra le sue braccia i contestatori di Riad. E soprattutto – questo è il vero dramma – i due sanguinosi conflitti del Vicino Oriente, quello siriano e quello yemenita, non sembrano destinati a risolversi in virtù di questo ingresso in campo a gamba tesa da parte di Donald Trump.

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