Perché lo Stato non deve produrle
venerdì 19 gennaio 2018

È iniziata la campagna elettorale e i leader di partiti e movimenti hanno cominciato a esporre le proprie promesse su aspetti decisamente prevedibili. A mancare nella lista dei temi trattati, però, sono da sempre alcuni argomenti delicati come quelli inerenti alla produzione militare del nostro Paese. Un problema mai affrontato con compiutezza dai politici di qualsivoglia orientamento e formazione politica è, in particolare, quello dell’impegno pubblico nella produzione e nell’esportazione di armamenti.

I cittadini italiani, attraverso il Ministero dell’Economia e Finanze, infatti possiedono la quota maggioritaria di uno dei primi dieci produttori di armi al mondo, vale a dire Leonardo (già Finmeccanica) che negli ultimi anni ha ceduto le attività nei settori civili per concentrare il proprio impegno nella produzione militare. Tale “militarizzazione” della politica industriale italiana, tuttavia, non sembra abbia mai suscitato dubbi o perplessità in alcun esponente della nostra classe dirigente. Invero, il controllo pubblico di un produttore di armi quotato in Borsa pone inevitabilmente alcune serie criticità che andrebbero affrontate senza indugio.

In primo luogo, esiste un problema oggettivo di conflitto di interessi tra gli obiettivi dello Stato azionista di maggioranza e quello di amministratori e azionisti di minoranza. La proprietà statale, infatti, è giustificabile alla luce di esigenze di difesa. Obiettivi dello Stato devono essere la sicurezza e la pace. Obiettivo di amministratori e azionisti di minoranza sono il raggiungimento del più elevato profitto possibile. Uno Stato, quindi, potrebbe razionalmente voler limitare le proprie esportazioni di armamenti per non compromettere la pace a livello globale o, comunque, per evitare di alimentare crisi e situazioni di instabilità e di insicurezza “importabili” da regioni limitrofe.

Non per nulla il Parlamento italiano ha liberamente ratificato il Trattato sul commercio internazionale di armi convenzionali, che pone limiti stringenti alle esportazioni verso Paesi coinvolti in conflitti o in cui siano accertate violazioni dei diritti umani. Chiaramente l’interesse di amministratori e azionisti di minoranza può essere decisamente in controtendenza rispetto a questo, poiché limiti e vincoli alle esportazioni diminuiscono i profitti attesi e il Governo potrebbe subire pressioni per eludere restrizioni altrimenti opportune. In ultimo, limiti meno vincolanti alle esportazioni potrebbero essere in contrasto con le esigenze strategiche e di sicurezza del Paese oltre a porre un problema oggettivo di rispetto dei Trattati internazionali.

Il quesito che meriterebbe una risposta o comunque una discussione è quindi se i diversi gruppi e schieramenti politici che si presentano alle elezioni siano favorevoli alla privatizzazione di Leonardo per poi lasciare al Governo e al Parlamento il solo e grave compito di regolare e controllare la produzione e l’esportazione di armi in linea con i Trattati internazionali e gli interessi strategici italiani. In seguito a una privatizzazione l’ambiguità negli obiettivi e il conflitto di interessi scomparirebbero o comunque sarebbe significativamente ridotti.

Il quadro peraltro si complica se guardiamo con maggiore attenzione alla struttura proprietaria di Leonardo. Essa è così composta: il 30,2% delle azioni è nelle mani del Ministero dell’Economia e delle Finanze, il 50,4% in quelle di investitori istituzionali mentre il 17,7% in quelle di investitori individuali. Il 90% del flottante istituzionale, però, è in mano straniera: quasi il 40% in Nord America; il 22,7% in Regno Unito e Irlanda, il 12,7 in Francia, l’8,8% nel resto del mondo, il 7% nel resto d’Europa. Tale divisione pone ulteriori problemi oggettivi in merito alla distribuzione degli utili e dei costi sostenuti per raggiungerli.

È inutile dire, infatti, che le performance e i risultati reddituali di Leonardo dipendono dalle relazioni diplomatiche che l’Italia intesse a livello mondiale. Solitamente quando è annunciato un nuovo contratto, ciò avviene alla presenza di rappresentanti del Governo italiano e del Governo cliente. Tutti ricordiamo, ad esempio, la presenza della ministra Roberta Pinotti a Kuwait City alla firma del contratto per la fornitura di 28 caccia Eurofighter. Alla luce del fatto che tra gli azionisti di Leonardo si ritrovano un buon numero di investitori stranieri, possiamo concludere che la diplomazia italiana probabilmente è spesso al lavoro per aumentare i dividendi di banche d’affari e fondi di investimento stranieri.

È legittimo, pertanto, chiedere a chi si presenta per guidare il Paese se è opportuno che la nostra diplomazia e il nostro governo siano impegnati per aumentare i profitti di soggetti privati tra i quali banche e fondi stranieri. In altre parole, è legittimo chiedere ai leader politici se i contribuenti italiani debbano sostenere, attraverso l’ormai celebre “fiscalità generale”, i costi per aumentare i profitti di investitori privati e in buona misura stranieri. In ultima analisi, la struttura proprietaria e la governance di Leonardo necessitano di un rinnovamento e ri-articolazione sostanziali. E tale evoluzione deve essere condotta nella consapevolezza che in una democrazia che si rispetti non possono esistere obiettivi diversi rispetto alla pace e alla sicurezza. C’è da sperare che i nostri politici abbiano il coraggio, la forza e il senso di responsabilità di occuparsene senza ulteriori ritardi.

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