martedì 8 marzo 2011
COMMENTA E CONDIVIDI
La vicenda di Eluana è stata come un crinale. Dalla cima si vedono bene i diversi aspetti di un problema che ha diviso le coscienze, lacerato gli animi. Mano a mano che si scende giù, però, è tutto più confuso. Io credo che noi non possiamo affrontare il tema delle Dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat) – quello che da alcuni è definito testamento biologico – se non guardiamo alla tematica nel suo complesso, e alle problematiche in campo, senza lasciarci deviare da approcci ideologici. In campo ci sono persone molto diverse tra loro. Ci sono i sani e i cosiddetti malati, e tra questi coloro che hanno possibilità di autodeterminazione e altri che non l’hanno. Ognuna di queste persone, coinvolta nel suo essere e nel suo pensiero, ha attorno a sé una famiglia e tante relazioni che ne fanno un 'animale sociale'. Tutto il contesto è coinvolto in questo percorso, specialmente quando parliamo di persone in stato vegetativo e di minima coscienza. In questo ambito si inserisce il caso di Eluana e di suo padre. Prima di essere una richiesta di fine vita è un fatto umano, uno specchio che riflette una condizione – lo stato vegetativo – minoritaria ma diffusa tra migliaia di persone che la vivono in Italia e tra le famiglie che ne sono coinvolte.Non si può non pensare come, ogni volta che queste persone sono state rappresentate come attaccate a macchine, in fin di vita, cose inanimate che non sentono, non vedono, non hanno emozioni e non possono percepire dolore, qualcuno dei loro familiari sia stato indotto a chiedersi: «Ma stanno parlando di noi?». Ci sono molte associazioni che si occupano di queste problematiche e cercano di riaffermare la condizione e i diritti di queste persone gravemente disabili. Non è facile. La negazione della disabilità è ancora troppo forte, e sui media questi argomenti sono scarsamente rappresentati. La legge che riguarda le Dat, di cui ieri l’aula della Camera ha avviato l’esame, è un buon punto di partenza e può essere sicuramente migliorata. Ma il problema oggi, nell’affrontare queste tematiche, è liberarsi della contrapposizione tra 'diritto di cura' e 'libertà di scelta', uscire dalla curva degli ultrà per dimostrare che una squadra è migliore di un’altra. Non siamo allenatori, e neanche tifosi. Siamo operatori, testimoni, interpreti. È difficile far capire che esiste una possibile terza via tra posizioni che si propongono come antagoniste: quella del 'partito delle famiglie' che vogliono uscire dall’ombra per rivendicare la dignità di cura, il diritto a essere composte da cittadini come gli altri, in ogni area geografica di riferimento. Non va dunque confuso lo stato vegetativo con il cosiddetto testamento biologico, e non bisogna farne un campo di battaglia pensando che queste persone siano già senza vita. Non è così. Lo sanno molto bene i familiari, lo sanno i clinici che vogliono capire dove stia andando la ricerca e se ci sia qualche concreta speranza, qualche nuova terapia per il loro futuro. Sarebbe utile fare una buona comunicazione, senza pregiudizi, per riconquistare quella sana alleanza terapeutica tra medici e famiglie. Che non si guardi il particolare, quel tubo che entra nella pancia e alimenta la persona, per chiedersi in una forma sterile, distante e quasi filosofica: è una terapia? Guardiamo invece nel suo complesso quella persona, chiediamoci in assenza di coscienza che cosa pensano i loro familiari, cosa sperano, cosa gli manca, cosa chiedono, con quale animo si rivolgono ai medici non per vedere in loro un professionista che costringe ma un amico che capisce, aiuta e condivide un percorso di cura. Non confondiamo le persone con le cose.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: