Il negoziato generale
sabato 15 luglio 2023

Huw Pill, che è il capo economista della Banca d’Inghilterra, lo scorso aprile è diventato improvvisamente uno degli uomini più impopolari del Paese. Colpa di un podcast della facoltà di Legge della Columbia, durante il quale ha parlato forse con troppa schiettezza dell’inflazione. «Non hai bisogno di essere un grande economista per capire che se il prezzo di quello che compri è salito molto rispetto a quello che vendi, allora starai peggio», ha detto ad esempio Pill, che poi ha aggiunto: «Quello che abbiamo di fronte adesso è la riluttanza ad accettare che sì, stiamo tutti peggio». Un messaggio scivoloso, che nella semplificazione dei giornali poteva solo risultare odioso. «I britannici devono accettare che sono più poveri, dice l’economista della Banca d’Inghilterra», ha titolato il Guardian. Travolto da un’ondata di rabbia popolare, lo sventurato studioso un paio di settimane dopo ha ammesso che forse avrebbe potuto scegliere parole diverse per descrivere la sfida che la popolazione ha davanti.

Al di là delle questioni lessicali, Pill aveva detto una cosa vera. Almeno dal punto di vista “tecnico” di una banca centrale. È la famosa e temuta spirale salari-prezzi: il costo della vita sale e i lavoratori chiedono aumenti di stipendio, la crescita del costo del lavoro spinge le imprese ad alzare i prezzi dei prodotti, a quel punto si torna da capo e l’inflazione va fuori controllo. Non se ne esce finché qualcuno non si arrende e accetta che il suo potere d’acquisto è diminuito. Il fatto è che occorre decidere a chi tocca arrendersi.

Una fase di alta inflazione come quella che abbiamo vissuto nell’ultimo anno e mezzo – e che auspicabilmente si sta esaurendo – assomiglia per certi versi a una rivoluzione, un grande rimescolamento delle carte sulla situazione finanziaria delle famiglie e delle imprese. I prezzi salgono per tutti, ma c’è chi ha modo di fare salire anche le proprie entrate e chi invece resta con il famigerato cerino in mano, perché spende di più ma guadagna come prima. Siamo all’inizio di un grande negoziato generale dal quale dipenderà probabilmente anche l’assetto sociale dell’Italia per i prossimi anni.

Il racconto di questa trattativa è già nelle cronache di questi mesi. Quando la Banca centrale europea scrive che i prezzi sono stati spinti anche dall’aumento dei margini di profitto delle imprese (anche se in Italia è successo meno che altrove) dice che molte aziende stanno riuscendo a uscire vincenti da questa fase. Le proteste degli studenti nelle tende e l’allarme generale sul costo dell’abitare svelano che i rentier dell’immobiliare sono un’altra categoria che ha l’aria di essere capace di scaricare su altri l’aumento del costo della vita. Anche il dibattito sul reddito minimo si inserisce in questo contesto: non è detto che lo strumento sia quello giusto, ma è difficile non vedere l’urgenza di alzare stipendi da 5-6 euro all’ora, che erano già bassi anni fa e che questa inflazione ha reso incompatibili con una vita economicamente dignitosa.

Ci sarebbe una via d’uscita abbastanza semplice, la potrebbe indicare anche un bambino: chi ha le spalle economiche più robuste potrebbe farsi carico del grosso di questa inflazione. Ma è una strada semplice solo in teoria, perché la riluttanza ad accettare di essere più poveri è comprensibilmente diffusa anche tra le classi sociali più agiate. Per il governo ci sarebbe anche l’occasione di rianimare la produttività, la cui stagnazione è uno dei mali cronici dell’economia italiana, con provvedimenti che restituiscano reddito e potere d’acquisto a chi sa creare ricchezza condivisa in questa «Repubblica fondata sulle rendite», come l’ha definita pochi giorni fa Giancarlo Giorgetti, il ministro dell’Economia. La ripartizione del peso dell’inflazione si può gestire ricordando che in ogni trattativa è sempre il più debole a partire svantaggiato. Non sarebbe tollerabile è che alla fine siano i poveri a doversi rassegnare a una povertà ancora più spietata.

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