sabato 8 luglio 2023
Un giovane migrante seduto in un parco cittadino, uno scrittore solo col suo cane: Hans Tuzzi racconta come può nascere una relazione che si trasforma in speranza
Hans Tuzzi nel 2001 in compagnia di Dora, la sluoghi citata nel racconto, e Dafne

Hans Tuzzi nel 2001 in compagnia di Dora, la sluoghi citata nel racconto, e Dafne - Per gentile concessione di Hans Tuzzi

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Ci sono incontri che cambiano la vita. A volte lo si capisce subito, in altri casi serve del tempo. Abbiamo chiesto ad alcuni scrittori italiani di raccontare in prima persona ad “Avvenire” le ragioni di una relazione che ha rappresentato una tappa significativa nella loro vita, perché ha suggerito un cambio di direzione, ha fornito la conferma della bontà di un percorso, ha portato un modo nuovo di guardare alle cose di tutti i giorni.

Un uomo ancora giovane, venuto dall’altra riva del mare, sedeva sulla panchina al bordo del prato. Era arrivato su un barcone, dopo aver pagato una grossa somma – due anni di stipendio, nel suo paese – al broker libico. Il giovane pensò broker perché alle scuole (era diplomato) aveva studiato inglese. Poi il barcone era rimasto in panne in mezzo al Mediterraneo, che sulla carta sembra piccolo ma su una nave, e ancor più su un barcone, sembra senza confini. Erano stati fortunati, perché una motovedetta della Marina italiana («Una nave messicana?» si era stupito, scorgendo qualcosa nel bianco del Tricolore) li aveva raccolti e portati su un’isola, apparsa improvvisa, alta e nera, una rocca nel deserto del mare. Da lì, dato a ciascuno un foglio, li avevano condotti al porto di un’isola più grande, da dove lui, buttato il foglio in un cestino, era salito su un treno che, imbarcato su un traghetto («Questa è l’ultima volta che vado per mare » si era promesso), aveva risalito quella penisola lunga dalla forma curiosa subito riconoscibile sulle carte: un paese dai paesaggi che cambiavano nel giro di pochi chilometri e in ventiquattr’ore ogni segno di Mediterraneo era scomparso per dar luogo a una pianura chiusa all’orizzonte da montagne.


Lo scrittore stava vivendo la lunga
e dolorosa agonia della madre
Morta lei, superata la boa degli anni
il cui numero indica nella Smorfia
la musica, un doppio cinque,
lui sarebbe avanzato verso la vecchiaia...

Era fortunato? Sì, perché era vivo. Era sfortunato? Un poco, perché, presentatosi come ogni mattina nel bar che stavano ristrutturando, aveva scoperto che l’italiano che lo aveva assunto in nero come imbianchino, giocando sulla sua ignoranza della lingua non gli aveva detto che il lavoro era finito, ed era scomparso senza pagarlo. Un poco, perché al lavoro successivo al compagno di lavoro era sfuggita di mano la sega elettrica, e lo avevano scaricato in un Pronto Soccorso dove, sì, lo avevano ricucito senza chiedergli nulla, ma ora una cicatrice sinistra gli tagliava il mento, e questo gli dava un’aria poco rassicurante. Ora, senza lavoro, senza permesso, vivente male e fuori dalla legge, mangiava alla mensa dei frati e dormiva, l’inverno in una scuola non ancora in funzione, sotto le stelle del pratone d’estate. Lì lo aveva spiaggiato la corrente della vita. Poiché conosceva i poeti della sua lingua, pensò: « Il posto in cui sei adesso / Dio l’ha cerchiato su una mappa per te». Solo che al posto di Dio lui compitò un altro nome. Ma questo non aveva importanza, lassù.

Il pratone era un giardino grande come un campo di calcio – sport al quale giocava, da ragazzino, e del quale seguiva le grandi squadre – riparato, quasi nascosto, in una zona semicentrale della grande città. Il suo sogno, mentre di giorno girava le strade in cerca di un lavoro, era trovare una busta con dentro diecimila euro. Allora si sarebbe presentato in Questura chiedendo di essere rimpatriato. Una busta, però, perché lui era onesto, e un portafoglio con i documenti lo avrebbe restituito intatto al proprietario. In fondo, per un italiano benestante diecimila euro perduti non sono una tragedia, per lui invece sarebbero stati una nuova vita.

Gli italiani, pensò, stanno bene e non lo sanno, son sempre seri e ingrugnati, come quello lì, eccolo, che ogni mattina, molto presto, quando non c’era nessuno, portava al pratone il suo cane, una femmina di quelli che al suo paese si chiamavano sloughi, una femmina dal manto tigrato che giocava con le rondini e riusciva ad azzannare i merli in volo. L’uomo, elegante, la faccia carnosa e dura, occhiali da bey, doveva essere di quel partito razzista a un cui comizio era andato a curiosare, un giorno, nella piazza del Duomo, senza sapere chi fossero né capire quel che blaterava l’esagitato sul palco, ma consapevole che tutti, senza che lui sapesse spiegarsi perché, lo guardavano con diffidenza e stupore. Sì, anche l’uomo con lo sloughi tigrato doveva esser di quelli.

Lo scrittore stava vivendo la lunga e dolorosa agonia della madre. Morta lei, superata la boa degli anni il cui numero indica nella Smorfia la musica, un doppio cinque, lui sarebbe avanzato verso la vecchiaia più povero e più solo. Solo con l’amatissima levriera tigrata, che è come dire solo con una bambina che ha due anni per sempre. Una bella zavorra. Senza di lei, però, si sarebbe ucciso. Solo. Senza un affetto. Senza un sostegno. Ecco, pensò, di questo avrebbe avuto bisogno un naufrago come lui: di un sostegno. O, meglio ancora, ma era follia solo illudersi, qualcuno con cui istituire un rapporto umano, che nulla avesse dell’arida e pur necessaria giurisprudenza che improntava ormai quasi ogni aspetto della vita in Occidente.

Si sentiva come uno di quei rami, ancora verdi di foglie, che il mare spiaggia sulla sabbia, dove ogni fronda avvizzisce e muore. Guardò l’unica presenza umana nel pratone, l’uomo ancor giovane seduto sulla panchina. Era ormai una settimana che, ogni mattina, lo trovava lì. Probabilmente dormiva da qualche parte, lì vicino, o forse sulla panchina stessa. Mentre la grande cagna correva da un odore all’altro, si guardò intorno cercando: ma, no, non vide un sacco a pelo o qualcosa di simile. Vero che ormai era maggio, faceva caldo, però... Immobile, l’uomo lo guardava come un animale selvatico può fissare una presenza lontana potenzialmente ostile. Con vigile indifferenza. « Poveraccio», pensò, e nel pensarlo l’occhio gli cadde su un foglio di giornale spiegazzato sotto la panchina.

«E però» si disse scuotendo impercettibilmente la testa, «un minimo di rispetto per dove sono, proprio non lo hanno ancora imparato». Educato dai suoi a compassione e curiosità, lo scrittore aveva viaggiato il mondo, e sapeva bene che razzismo e ingiustizia sono equamente distribuiti in ogni continente, e che soltanto in Occidente si andava creando, non senza difficoltà, un senso di colpa per gli oppressi e per i problemi di quel pianeta così piccolo e così fragile, la Terra. Però quel foglio di giornale lo infastidì. Fischiò, e subito la grande cagna tigrata – il loro era un forte rapporto di amore e di comprensione reciproci – lo raggiunse con lunghi balzi festosi. Uscendo, non poté vedere l’uomo ancora giovane raccogliere il foglio di giornale, farne una palla e buttarlo nel cestino.

L'uomo ancora giovane sedeva all’ombra di un platano su una panchina del più elegante giardino della città. Era soddisfatto perché c’era il sole, e lui aveva mangiato dai frati, e da qualche tempo guadagnava qualcosa preparando per la raccolta comunale, due mattine alla settimana, i sacchi dei rifiuti di due palazzi e perché, in uno dei bidoni di rifiuti, aveva trovato un paio di scarpe nuove, rosse e crema, della sua misura. Le calzava a pelle, e stava a capo chino, assorto nei suoi pensieri. Non aveva ancora trovato la busta con i soldi, ma era giugno, e questo era già qualcosa, si disse, lo sguardo fisso alle sue belle scarpe. Poi, sentendosi osservato, alzò gli occhi. La sloughi tigrata era lì, davanti a lui, e sembrava contemplarlo intenta. E, dietro a lei, ecco arrivare l’uomo con la faccia da razzista. Da lontano lo scrittore aveva riconosciuto l’uomo del pratone, aveva notato le eccentriche eleganti brogue e con piacere aveva visto Dora fermarsi a guardarlo. Si avvicinò, gli sorrise. Poi, si parlarono.

Diciassette anni dopo, procediamo ancora insieme verso l’ultimo confine terreno. Ciascuno l’altrui metà mancante, siamo Uno. Sol non è più giovane e ha trovato ben più che una busta con diecimila euro. Si è sposato, ha una moglie e un figlio bellissimo. Due anni fa ha chiesto la nazionalità italiana. Ma noi siamo un paese di tempi lunghi, come le ombre della nostra Storia. Io, ormai vecchio, ho trovato ben più che un sostegno: una famiglia, oltre ogni speranza. Dora, la grande cagna dal manto di tigre, la terza anima della casa, è morta nove anni fa. La sogniamo spesso, perché, insegna Eraclito, «le anime annusano già verso l’Ade».

L'autore

Hans Tuzzi è autore di saggi su bibliofilia e collezionismo, e dei romanzi “Vanagloria” (2012), “Nessuno rivede Itaca” (2020) e, il più recente, “Curiosissimi fatti di cronaca criminale” (2023), tutti editi da Bollati Boringhieri. Della serie poliziesca che ha protagonista il commissario, poi vicequestore, Norberto Melis, in una intervista a “Fahrenheit” del 2015 disse che «ha l’ambizione di rappresentare l’Italia dal 1978 (rapimento Moro) sino alla crisi della Prima Repubblica, gli anni in cui si svilisce la grammatica di una civiltà». Un aspetto presente in tutti i suoi romanzi, sottolineato anche da Corrado Augias: «Tuzzi è un maestro che sottintende il declino di una civiltà».

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