Delitto e martirio, dure domande e luce
giovedì 17 settembre 2020

L’accaduto di Como si chiama delitto, l’accaduto di Como si chiama martirio. Delitto è parola che sta su un registro di tribunale, martirio è parola che sta su un altro libro fuori terra, inaccessibile se non alla fede. Ma di cos’altro avremmo bisogno se non di fede a intendere la morte di don Roberto Malgesini oltre il pianto e la rabbia e il dolore? Già la sera del giorno tragico, quando c’era il rosario in cattedrale, tutta la città stava lì che non si poteva più entrare, e neanche sulla piazza e nelle vie adiacenti, tanta gente c’era, con le mascherine sul viso e con le lacrime agli occhi. Ma non è la parola delitto o quella di martirio che mi è rimasta conficcata in cuore. Sono altre tre le parole inchiodate: una è assassinio, due è senzatetto, tre è psichiatrico. E poi ce n’è una quarta che non riesco a dire, e che sta dentro quell’immagine di prete di strada, dentro quello sguardo felice, felice d’amare, che pare lasciar fluire dagli occhi, dal cuore, la vita.

Assassinio. La voce della morte, dentro l’impulso aggressivo. Un impulso che abita il sotterraneo scuro dell’essere umano, e che mi viene paura a nominare, se sia istinto di materia o recesso dell’anima. È un seme. È un seme, dentro, che può farsi sterile o fecondo secondo il nutrimento che riceve, e il nutrimento che lo rigonfia è l’odio. Da tempo ormai il tempo nostro è tempo d’apprendistato dell’odio, rigurgito di un umanesimo disumanizzato, sotto l’ancestrale fantasma di Caino. Quanto sia disumano in radice il mondo umano ab antiquo, fino a crudeltà innominabili, è registro di storia che a scuola si apprende, e nulla pare aver insegnato al mutamento.

Incivile qual è divenuto di recente fra noi il linguaggio (e il pensiero) dell’odio ordinario nei rapporti sociali antagonisti procura frutti di crudeltà e violenza su scala infinita. Senzatetto, che vi ha a che fare? Senzatetto è una crudeltà preventiva, un innesco di potenziale rancore. Senzatetto è un’ingiustizia e un insulto, una povertà che grida il suo dolore nelle nostre città di palazzi dismessi, di ville, di case, di tetti normali e ordinari, persino di alveari poveri o di tuguri, e ne resta esclusa ed espulsa senza un sasso dove posare il capo. Su quali spalle pesa il dolore? Quale livello di disperazione può farvi scintilla di criminogenesi? E psichiatrico, che vi ha a che fare quest’altra parola di previa inquietudine? Ogni malattia è dolore, ma la malattia che toglie il senno è più crudo mistero. Per tempo infinito ce ne siamo difesi con la segregazione, i muri e le camicie di forza, poi i rimorsi di coscienza hanno messo in libertà quel dolore, promettendo di curarlo a casa, per chi casa ce l’ha, e la promessa non ha raggiunto il suo traguardo. Che cosa fare, dunque? Disperate domande sconfitte. Chi cerca risposta d’impossibile ardire? È quella quarta parola, che non so dire, e che germoglia dentro il cuore d’un prete di strada, e che brucia come fuoco nelle ossa d’un profeta, e che ha un’unica folle sapienza che è il dono. Il dono che affronta e abbraccia quelle stesse due tremende parole dell’umano dolore e dell’umana ingiustizia, in guisa di croce, in nome di un’altra parola. La parola ultima che consuma tutte le altre, e che è vita proprio perché è vita disposta a perdersi per amore. L’unica vita che non conosce morte nella morte. Il pianto di oggi è promessa, don Roberto, che il tuo cammino non sarà abbandonato.

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