Ai vecchi che se ne vanno in solitudine
martedì 10 novembre 2020

«Muoiono solo i vecchi», ha detto l’altra sera in tv un autorevole gerontologo. Muore di Covid, ha spiegato, chi ha in media ottant’anni e altre malattie. Certo, se questo è il dato statistico, si sa che nella statistica entrano i centenari, ma anche chi è molto più giovane. Tuttavia probabilmente, ascoltando quel professore, in molti avranno tirato un sospiro di sollievo, eco dell’istinto di sopravvivenza che abita in ciascuno di noi, più o meno in fondo.

Ma c’è qualcosa che non vediamo, o vediamo solo quando ci tocca da vicino, nell’affermazione di quel medico. Stanno morendo in tanti, a centinaia, gli italiani nati fra i Trenta e i Quaranta. Quella generazione che si sposava ancora e davvero per sempre e, ancora, metteva al mondo molti figli. Che ignorava il weekend e l’happy hour, e pedalava anche con freddo e pioggia per andare a lavorare, almeno fino agli anni del boom. I più anziani ricordano ancora la guerra, e, a Milano, le bombe che cadevano sulla città, e lo scendere di corsa per le scale delle cantine, attaccati alle gonne della mamma. Molti sanno ancora, bene, la fame, una memoria che costituisce chi l’ha provata, e traccia un discrimine netto con chi non sa cosa sia. Dunque quando si dice, forse per rassicurarci, «Muoiono solo i vecchi», si dice che la pandemia sta falciando il tessuto più antico e profondo del Paese, deposito di memorie e di tesori. Ma, ribatte qualcuno, si sa bene che a una certa età moriamo: dunque, siamo nella natura delle cose. Non del tutto, in verità. Proviamo a guardare da vicino a questa feroce mietitura.

Quanti, stanno morendo soli. Una febbre improvvisa, la sirena dell’ambulanza che brusca tace sotto il portone di casa, passi veloci sulle scale. E bisogna andare: senza un figlio accanto, senza nessuno. Non si è mai morti così in Italia da tanto tempo, se non in remote epidemie. Immaginate dei coniugi da cinquant’anni assieme, separati in un istante: 'No, signora, lei deve restare'. Un’anziana donna immobile sulla porta, a guardare la sua vita che se ne va. E, a quello dei due che parte, quanto gli corre il cuore nel petto? Facce ignote, modi gentili ma anonimi, e medici e infermieri bardati, irriconoscibili. Forse ne cercano gli occhi i nostri vecchi, dalla barella, e forse riescono a incon-trarli, e quegli occhi li guardano con umanità.

Ma tanti sono i pazienti, e gravi, e i medici devono andare. I bambini degli anni Trenta se ne restano con nelle mani un telefonino che sanno usare male, e solo finché hanno la forza di parlare. Morire soli, è la straziante sorte che tocca di nuovo, in questi giorni, a una generazione. Incredibilmente, nel mondo iperconnesso, morire soli. Ma dall’altra parte della città, pensiamoci, soli restano poi i sopravvissuti di quelle antiche coppie. E forse rimanere a quell’età senza il compagno o la compagna di una vita intera, è peggio che morire. Tanto inestricabili ormai le vite, e la voce, e le espressioni, e il respiro nel sonno dell’altro, come parte di se stessi: così che, venendo quello a mancare, ci si sente mutilati. Ti racconta un amico del suo anziano padre rimasto vedovo in poche ore: del tutto disorientato, incapace di badare a se stesso. Soprattutto gli uomini possono ritrovarsi, in un addio immediato e duro come un colpo di accetta, bambini, abbandonati dalla loro donna, di cui erano quasi nuovamente figli. «Muoiono solo i vecchi», se ha ragione quel professore... E, sì, da vecchi, comunque, si muore: ma quanta pena invisibile e cocente nella partenza simultanea di tanti. Facce solcate dal tempo, con tutto da lasciare, di ciò che è più caro.

La propria donna, i figli, i nipoti amatissimi, e quel Paese ricostruito con le proprie mani. Resteranno, nelle nostre città, tante case vuote. Case con mobili antichi e troppo ingombranti per i bilocali di oggi, specchiere che hanno riflesso vite intere, letti scuri e alti come altari. Foto di nozze in cornici d’argento, e dentro l’immagine che va seppiandosi col tempo – forse svanendo? Calendari in cui il biglietto della data si ferma: 9 novembre 2020. Non ci vogliono chiacchiere, ma rispetto e solidarietà concreta e una preghiera per ognuno di quei 'vecchi' che se ne vanno soli, o soli rimangono.

Anche se accompagnati da qualcuno che li ama, soli con ricordi ormai soltanto loro. (Lei, diciottenne, al primo appuntamento, una mattina d’estate. L’indescrivibile odore dell’aria, quel giorno, che non si può raccontare). Una preghiera per ognuno di quei quattrocento al giorno, che vanno. E me ne viene in mente una assolutamente laica, che è il verso di una canzone di Roberto Vecchioni: 'Noi ci ritroveremo ancora insieme, ma molte, molte lune in là…' E non so fra quante lune, o se invece molto presto, ma: voi vi ritroverete ancora insieme. Come ci è promesso, in Cristo. Per sempre, come vi siete promessi voi, in un giorno lontano.

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