giovedì 14 luglio 2016
​Reportage da un Paese diviso tra laictà ed estremismo. «Illusi, ma nessuno li aiuta». di Francesca Ghirardelli
I 6mila ragazzi di Tunisi partiti per la jihad
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Nel mezzo della rivoluzione del 2011 Mohammed si era presentato a una stazione di polizia per denunciare il saccheggio del suo negozio: «Lascia perdere, non vedi che il Paese è nel caos?», gli avevano risposto gli agenti. Qualche tempo dopo era riuscito ad avviare una nuova attività, un Internet point con cui cercava di mettere a frutto gli studi universitari in informatica. Nel 2015, tuttavia, da un giorno all’altro, è stato sfrattato, i suoi affari sono andati a rotoli, e lui, scoraggiato, ha deciso di partire. «Ha comprato un biglietto aereo per il Senegal, ci ha detto che laggiù avrebbe lavorato per una ditta italiana specializzata nella pesca. Lo abbiamo accompagnato all’aeroporto. Gli ho preparato una tajine e dolci tradizionali», racconta, senza darsi pace, la madre Dalila (nome fittizio, come gli altri citati). Accanto a lei ci sono il marito Tawfik, la figlia, il cognato, il nipotino e uno zio, tutti seduti nel piccolo cortile di casa, che un alto muro separa dal labirinto di vicoli di questo quartiere popolare della periferia sud di Tunisi. Nessuno di loro ha più rivisto Mohammed, scomparso in Siria, dopo essersi arruolato tra le file dello Stato islamico e, con ogni probabilità, già morto. È uno dei 5.500 tunisini che, secondo le stime del Gruppo Onu sull’Impiego dei Mercenari, hanno lasciato il Paese per unirsi alla causa jihadista in Siria, Libia, Iraq, Mali. Registra una cifra simile (circa 6.000 foreign fighters tunisini) anche il Soufan Group, azienda che fornisce valutazioni di intelligence a governi e imprese. Dopo l’attentato al Museo nazionale del Bardo nel marzo 2015 e la strage sulla spiaggia di Sousse (il 26 giugno si è celebrato il primo anniversario), con l’avvio della stagione turistica 2016 è arrivato l’annuncio di nuove misure di sicurezza: 1.500 agenti supplementari, 72 nuovi presìdi di controllo nei siti turistici, spiagge comprese. La Tunisia della rivoluzione si attrezza per limitare il rischio di nuovi attacchi, ma la strategia impiegata sembra essere sempre la stessa: «Ci sono tunisini partiti per Siria e Libia, ce ne sono altri già rientrati nel Paese: eppure fino ad ora non vedo politiche di prevenzione se non quelle di natura securitaria», spiega al telefono da Beirut Georges Fahmi, ricercatore del Carnegie Middle East Center e coautore di Market for Jihad. «Ancora nessuna azione di natura socioeconomica è stata compiuta. Non si può pensare di tenere lontano dalla società le idee radicali occupandosi solo di sicurezza. Sulla de-radicalizzazione siamo ancora ai grandi dibattiti: servirebbe, invece, una coalizione fra Stato, autorità religiose, società civile e media. Occorre pensare a come reintegrare chi torna e prevenire nuovi reclutamenti». Osservando da vicino lo sviluppo del movimento salafijihadista in Tunisia, il professor Fahmi ne rintraccia le prime cause nella marginalità in cui la religione è stata relegata fin dall’indipendenza degli anni Cinquanta. Ma anche nello stretto controllo e nel monopolio statale della fede operato da Ben Ali: «Il movimento salafi-jihadista (costituito da diversi gruppi) si è avvantaggiato del vuoto 'religioso' che il Paese ha sperimentato dopo la caduta del regime nel 2011, quando le istituzioni religiose statali sono apparse indebolite per le politiche del vecchio governo e anche delegittimate proprio per il loro supporto a Ben Ali.  A contribuire al vacuum religioso è stata anche la decisione del maggiore movimento islamista tunisino, Ennahdha, di privilegiare gli aspetti politici (ha infatti costituito, con successo, un partito) privando in questi anni la scena prettamente religiosa di un forte soggetto che avrebbe potuto bilanciare la presenza radicale». «Religioso? Mohammed non è uno che indossa tuniche, non ha nemmeno la barba», si alternano nelle risposte la signora Dalila e il marito Tawfik. Ci porgono la foto del figlio. «Non sappiamo chi gli abbia fatto il lavaggio del cervello, lo hanno illuso. Da casa è partito con il pc e i suoi diplomi, mentre so di altri ragazzi che hanno raggiunto il Daesh senza portare nulla con sé. Prima di andarsene, aveva partecipato a un concorso pubblico per ottenere la licenza all’insegnamento. Ma non aveva conoscenze, né soldi per pagare bustarelle, come hanno fatto molti. Se solo lo Stato si occupasse dei suoi ragazzi!». Alle parole di dolore della madre di Mohammed fanno eco le analisi del professor Fahmi: «Il salafi-jihadismo ha offerto un’identità di protesta a giovani che si sentivano isolati dalla nuova classe politica. Ha costituito uno sfogo alla disillusione, a reazioni contro uno Stato che non è riuscito a includerli socialmente ed economicamente. I profili dei giovani coinvolti negli ultimi attacchi testimoniano la diffusione del movimento anche tra studenti della classe media e giovani professionisti». D opo la partenza di Mohammed per il Senegal, sul suo profilo Facebook è comparsa una foto scattata in Turchia. Poi un’altra immagine, che lo ritrae all’Iftar, il pasto serale che interrompe il digiuno del Ramadan, consumato con un amico libanese in Siria. «Siamo riusciti a parlare con lui al telefono da Raqqa (il quartier generale del Daesh, ndr): abitava lì con alcuni thailandesi. 'Cosa fai figlio mio', gli ho chiesto. Lui ha riposto: 'Désolé', mi dispiace». Per offrire un aiuto a familiari disorientati che vogliano riportare i figli in patria è all’opera la Rescue Association of Tunisians Trapped Abroad (Ratta), fondata e presieduta da Mohamed Iqbel Ben Rejeb, che abbiamo incontrato a Tunisi. «Quando un figlio parte, la famiglia vive un momento di emozione forte, non sa che fare. Ieri mi ha contattato un padre, piangeva. I familiari sono i nostri intermediari: non possiamo far rientrare i ragazzi a forza, ma se lo desiderano, li aiutiamo. Abbiamo conosciuto giovani pentiti di essersene andati». Più di 150 famiglie da tutto il Paese hanno contattato Ratta. «Ci forniscono informazioni, questa è la forza dell’associazione. Provano rabbia nei confronti di chi ha fatto partire i loro figli». Chiediamo come avviene l’arruolamento: «A lungo sono esistite in Tunisia moschee rimaste al di fuori del controllo del ministero degli Affari Religiosi. Ma anche, Facebook, utilizzato durante la rivoluzione, ha contribuito a diffondere le ideologie radicali. Se metto 'like' su una pagina di salafiti, poi il sistema del social network mi mostrerà altri link simili». Come si aiuta chi è partito? «Operiamo in molti modi – continua Ben Rejeb –. La modalità più trasparente è quella attraverso il Consolato tunisino a Istanbul: se la persona non è colpevole di nulla, viene fatto rientrare. E noi diamo una mano solo a chi non si sia macchiato di crimini». Alla fine, da Raqqa, Mohammed è stato trasferito nella provincia di Al-Haska: «Lo scorso agosto proprio in quell’area ci sono stati combattimenti. Stavo seguendo le notizie su France 24», interviene il cognato. «Ho chiamato mio suocero perché guardasse il TG». Il giorno dopo, qualcuno ha pubblicato un nuovo post sul profilo Facebook di Mohammed: due fotografie (in una è in primo piano, nell’altra mangia un gelato) accompagnano l’annuncio della sua morte. «Questo fratello è morto nella città di Haska. Che Dio lo accolga». Da allora del ragazzo nessuna altra notizia. «Ho saputo di famiglie che hanno ricevuto dal Daesh un cd con informazioni sulla morte dei figli e le foto dei corpi. Io, invece, non so se Mohammed sia ancora vivo, se si trovi nelle carceri siriane o del Daesh: ci torturiamo nell’incertezza», conclude la madre. Mentre ci saluta, sul cancello di casa, lancia un’occhiata fuori, verso una direzione precisa: «Che Dio rovini chi gli ha messo in testa l’idea di partire». (ha collaborato Badreddine Naceur)
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