«I profeti bisogna riconoscerli in vita». Ma a Gino Strada un po' è successo
venerdì 3 settembre 2021

Caro direttore,
dal 13 agosto siamo tutti un po’ più soli: la morte di Gino Strada ci ha toccato. E anche la concretezza della figlia, Cecilia, mi ha stupito quando ha affermato di non essere dispiaciuta di non essere stata a fianco del padre il 13 agosto, perché era su una nave a salvare vite d’immigrati dispersi in mare, secondo l’insegnamento che suo padre stesso le aveva sempre dato. Contemporaneamente è partita dalla mia terra di Reggio Emilia una raccolta firme per proporre il Nobel per la Pace (alla memoria) al fondatore di Emergency. Iniziativa giusta, ma in ritardo. Perché dobbiamo fare diventare i profeti “santi” solo dopo la morte; perché non abbiamo riconosciuto e sostenuto la candidatura di Gino Strada a Premio Nobel da vivo? Con questa onorificenza avrebbe avuto più peso nel sostenere le proprie idee e nel portare avanti le concrete battaglie di Emergency. Ho l’impressione che riconoscere i profeti dopo la loro morte sia funzionale a limitare la diffusione delle loro idee, le quali dopo morti saranno interpretate dal potere riducendone l’efficacia nel cambiare il potere stesso, e l’ingiustizia contro la quale il Gino Strada, medico, combatteva con fatti concreti, salvando vite umane.

Enrico Reverberi Reggio Emilia

Lei ha ragione, caro amico. Non sempre sappiano riconoscere i “profeti”, quelli che aiutano a vedere Dio e quelli che rivelano l’umanità a se stessa. Ma Gino Strada almeno un po’ l’abbiamo riconosciuto. Dargli il Nobel ora? Beh, un Nobel alla memoria non sarebbe solo fuori tempo, è anche impossibile: si può, infatti, essere insigniti solamente se si è in vita al momento dell’annuncio del Premio. Le raccolte di firme per la candidatura del fondatore di Emergency, pur lodevolissime nelle intenzioni, sono state quindi inutili. Non avrà il Nobel post mortem. E sono certo che da lassù lui ne sorriderà. Ma chi lo ha stimato e lo stima sa che il riconoscimento dell’azione sviluppata negli anni da questo medico e uomo di pace è stato e resta davvero vasto. E anche solenne. Solenne come un Nobel. L’unica di queste celebri onorificenze che viene consegnata nella capitale norvegese, Oslo, e non in quella svedese, Stoccolma, è proprio il Premio dedicato alla pace. Forse per questo, dal 1980, nell’ultimo giorno di novembre, Stoccolma ospita nella sede del suo Parlamento un evento di cui sono protagoniste personalità esemplari nell’impegno per una società migliore e un’economia giusta. Si tratta di un Premio che viene unanimemente considerato un «Nobel alternativo» a quello assegnato poche settimane prima in Norvegia e ormai troppo spesso “politico” e soltanto a intermittenza “umanitario”. È il Right Livelihood Award, letteralmente: “Premio al corretto sostentamento”, ideato e promosso da Jakob von Uexküll, filantropo e scrittore di origine estone e di cittadinanza svedese e tedesca. Strada, unico italiano sinora, lo ricevette nel 2015. Mi propose – e ne fui felice – di pubblicare in esclusiva su “Avvenire” il suo discorso di accettazione. Un testo vibrante e bello che mettemmo in pagina il 1° dicembre 2015. Al centro di quella sua riflessione-denuncia c’è l’idea di «abolire la guerra» (si può leggere anche online: https://tinyurl.com/premiostrada ). Lui aveva scelto di farlo. In mezzo alle guerre di altri, senza rinunciare alla passione e a nessuna battaglia, nella sua vita e nelle vite delle quali si è preso cura Gino Strada, la guerra l’aveva semplicemente e totalmente abolita.

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