martedì 10 dicembre 2013
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Si  fa presto a dire "forconi". C’è, infatti, chi ha parlato dell’atto di nascita dell’Alba dorata italiana, sul "modello" del partito nazionalista e xenofobo greco. E chi al contrario preferisce sottolinearne la natura apartitica, con manifestanti di diversa professione ed estrazione sociale. Ci sono i No Tav che prima si dimostrano interessati e poi si sfilano e c’è "Azione sociale" di Ingroia che invece ci pensa su e poi parla di «protesta sacrosanta». C’è infine Grillo, che subito cerca di metterci sopra non solo un fragile cappello, ma una sorta di elmetto, lasciando intendere che "i nemici" sono in qualche modo comuni: i partiti, le istituzioni, l’euro. Il Movimento dei forconi che ieri ha bloccato mezza Italia, insomma, assomiglia molto a un Ircocervo, animale mitologico dalla natura ambigua e contraddittoria.Capire chi ne fa parte effettivamente anche al netto dei violenti "infiltrati" – una (relativa) minoranza di autotrasportatori, di artigiani provati dal fisco, di agricoltori in difficoltà, assieme agli autonomisti siciliani e ai nostalgici della Serenissima Repubblica di Venezia – infatti non è semplice. Peggio comprenderne i reali obiettivi. Perché la loro piattaforma, se così la si può definire, si muove nello spazio angusto che separa il massimalismo fine a se stesso dalla rivoluzione di piazza: «Dimissioni del presidente della Repubblica, del governo, scioglimento delle Camere di nominati, chiusura di Equitalia e uscita dall’euro, riappropriandosi della sovranità popolare e monetaria perduta, ponendo un freno al Far west della globalizzazione». In tempi "normali" una protesta così si sarebbe spenta come un fiammifero al vento. Oggi, però, non solo siamo in un’Italia «sciapa e infelice», come l’ha definita il Censis, non solo il presidente della Confindustria parla addirittura di «disperazione» fra le imprese, ma la confusione è tale che Silvio Berlusconi – ex parlamentare, ma ancora leader di una parte del centrodestra, ora critica verso le larghe intese – arriva a proporre un’inedita alleanza arcobaleno con tutti – compresi Sel e M5S – per dare vita a un governo di scopo che approvi la riforma della legge elettorale (ma per questo, se si vuol fare, basta il Parlamento dove già sono presenti tutti i partiti, che c’entra l’esecutivo?).Con una politica in tale stato di confusione anzitutto mentale, è evidente che la protesta contro la pressione fiscale mortifera e un’Europa, tanto pignola sui decimali quanto miope sulla crescita, possa far presa. E immersi in una crisi economica così pesante, solo la responsabilità dei sindacati ha permesso finora che le tensioni fossero sempre e comunque ricondotte nell’alveo della protesta democratica e di una normale dialettica sociale.

Paradossalmente ma non troppo, finora i disagi maggiori ai cittadini li hanno provocati non i lavoratori disperati per le chiusure delle fabbriche, ma quelli in qualche modo "garantiti" delle municipalizzate dei trasporti, a Genova come a Firenze. La questione allora è tentare di capire se la protesta dei forconi può effettivamente diventare, per usare ancora le parole del Censis, il «sale catalizzatore» di una rivolta generale, con elementi diversi e contrastanti in grado di innescare una reazione esplosiva. Oppure, risolversi nel giro di qualche giorno come una fiammata intensa ma fatua. Un sindacalista dal pensiero fine come Bruno Trentin ricordava sempre che il problema non è proclamare uno sciopero generale, convincere le persone a non lavorare, portarle in piazza o addirittura bloccare una ferrovia. Il difficile è immaginare che cosa fare il giorno dopo, come gestire l’eventuale "successo" della manifestazione. Perché in una protesta, come in qualsiasi trattativa, occorre avere sempre ben chiaro quale può essere il punto di caduta, quali richieste concrete possono essere ragionevolmente ottenute. A meno che si pensi davvero di fare la rivoluzione, mandando tutto all’aria. In tal caso, però, occorre disporre di truppe sufficienti, assicurarsi d’avere almeno un discreto seguito popolare. E al popolo, in questi anni, già in troppi hanno venduto slogan, favole e illusioni perché ancora abbocchi.

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