I due patriarchi nell'orrore della guerra: perché essere a Gaza è un dovere
Pizzaballa e Teofilo III, insieme, come uomini disarmati, hanno portato il dolore e l'indignazione di tutti i cristiani per le bombe sulla chiesa. Un segno di presenza che parla da solo

Si sono presentati alle prime ore del giorno al confine di Gaza, il patriarca latino di Gerusalemme, Pierbattista Pizzaballa e Teofilo III, patriarca greco-ortodosso. Una delegazione religiosa internazionale: non si poteva dire di no, ma le consultazioni telefoniche tra gli ufficiali dell’Idf e i definitivi Ok per il «sì» prendevano tempo. Quando le cancellate si sono aperte, dietro ai due uomini in tonaca nera sono passate 500 tonnellate di aiuti per i cristiani di Gaza e per i loro vicini. Cibo, farmaci, bende, stipati sui Tir.
Il giorno dopo l’attacco alla Parrocchia della Sacra Famiglia, tre morti e dodici feriti, Pizzaballa ha portato la Chiesa oltre le unanimi parole di condanna internazionali: esserci, a Gaza, materialmente, con le braccia spalancate, esserci con il proprio corpo, mentre gli attacchi dell’Idf continuano, e ancora ieri sono stati uccisi altri civili palestinesi. Esserci: oltre ogni parola, come se ognuno di quei morti, di quegli sfollati, fosse un fratello, o un figlio. Come se la vita di ciascuno di loro ti riguardasse da vicino, nella Ground Zero che è Gaza, al 70 per cento distrutta secondo una recente indagine indipendente. Mentre Pizzaballa e Teofilo III attendevano di entrare nella città distrutta, un cellulare ha suonato. Era il Papa, a sostenere con forza quel gesto del Patriarca: «Questo massacro deve finire». Come ha poi detto allo stesso Netanyahu. La Chiesa sulla soglia di Gaza è presente. È andata di persona. E per la prima volta ieri mattina, in una telefonata che deve avere avuto toni serrati, lo stesso Netanyahu ha invitato Leone XIV in Israele. Questa è una notizia.
Netanyahu ha aggiunto che i negoziati procedono, e si è vicini a una tregua. Questa invece non è una notizia: ce lo raccontano da mesi. Ma per Gaza non c’è più tempo, come ha detto padre Ibrahim Faltas, Vicario della Custodia di Terrasanta, in un’intervista ad Avvenire ieri. Il bombardamento della Sacra Famiglia, come dice Israele, un «errore»? «No, l’errore è questa guerra».
E questa indignazione, questo dolore che è di tutti i cristiani, ieri mattina è entrato a Gaza con uomini disarmati – la grande croce oscillante sul petto di Pizzaballa. Esserci, oltre le ampie parole di condanna da Strasburgo a Parigi a Bruxelles a Roma. Esserci, perché cristiani.
In un mondo che cambia ogni giorno il suo orientamento – gli Usa con Putin, no, con la Cina, no adesso con l’Europa – come in una bussola impazzita il cui ago si affanna a ritrovare una strada smarrita, c’è una bussola almeno che rimane uguale e indica ostinata il suo Nord, che è Cristo.
Nel nome del quale ogni vittima è inaccettabile, e ogni morto bambino chiama Dio a giudicare. Rappresaglia, necessaria ragion di Stato, visioni strategiche, ci viene detto. Ma sappiamo che di tutti quei figli si dovrà rispondere a Dio. Anche i loro capelli erano contati, agli occhi di Dio: di quelle migliaia di seppelliti nelle case crollate, di quelli chiusi in fagotti bianchi e cullati da madri ammutolite, come ancora dormissero. Il mondo è un continuo susseguirsi di stragi sommerse. Questa di Gaza però ci atterrisce di più, perché è compiuta dagli eredi degli scampati ai pogrom e ai lager per le mani dei loro figli ventenni, che spesso non vorrebbero partire. Ma almeno, nel cuore della tragedia, esserci; a quel cancello, bussare, e portare la propria faccia. Come ha fatto in Ucraina in questi anni il cardinale Konrad Krajewski, Elemosiniere del Papa, che è andato a pregare sulle fosse dei massacrati di Bucha e in molti altri luoghi di sangue già dimenticati. Esserci, su quelle buche colme di morti. Questo, in guerre sempre “prossime alla tregua” e sempre avanzanti con i loro cannoni, ci dà almeno un conforto: Cristo c’è, in quei teatri di dolore, e il suo insegnamento è lo stesso, da duemila anni. Ago di bussola immobile, pietra miliare: amatevi come io ho amato voi. Tutto il resto, confini, Governi, parole, minacce, dazi, trema nel 2025, come in un sisma continuo. La parola di Cristo, ferma, ignara di ogni indice e Dow Jones e Borsa e summit. Una parola per sempre – un Dio venuto fra gli uomini, per sempre fra noi.
Il giorno dopo l’attacco alla Parrocchia della Sacra Famiglia, tre morti e dodici feriti, Pizzaballa ha portato la Chiesa oltre le unanimi parole di condanna internazionali: esserci, a Gaza, materialmente, con le braccia spalancate, esserci con il proprio corpo, mentre gli attacchi dell’Idf continuano, e ancora ieri sono stati uccisi altri civili palestinesi. Esserci: oltre ogni parola, come se ognuno di quei morti, di quegli sfollati, fosse un fratello, o un figlio. Come se la vita di ciascuno di loro ti riguardasse da vicino, nella Ground Zero che è Gaza, al 70 per cento distrutta secondo una recente indagine indipendente. Mentre Pizzaballa e Teofilo III attendevano di entrare nella città distrutta, un cellulare ha suonato. Era il Papa, a sostenere con forza quel gesto del Patriarca: «Questo massacro deve finire». Come ha poi detto allo stesso Netanyahu. La Chiesa sulla soglia di Gaza è presente. È andata di persona. E per la prima volta ieri mattina, in una telefonata che deve avere avuto toni serrati, lo stesso Netanyahu ha invitato Leone XIV in Israele. Questa è una notizia.
Netanyahu ha aggiunto che i negoziati procedono, e si è vicini a una tregua. Questa invece non è una notizia: ce lo raccontano da mesi. Ma per Gaza non c’è più tempo, come ha detto padre Ibrahim Faltas, Vicario della Custodia di Terrasanta, in un’intervista ad Avvenire ieri. Il bombardamento della Sacra Famiglia, come dice Israele, un «errore»? «No, l’errore è questa guerra».
E questa indignazione, questo dolore che è di tutti i cristiani, ieri mattina è entrato a Gaza con uomini disarmati – la grande croce oscillante sul petto di Pizzaballa. Esserci, oltre le ampie parole di condanna da Strasburgo a Parigi a Bruxelles a Roma. Esserci, perché cristiani.
In un mondo che cambia ogni giorno il suo orientamento – gli Usa con Putin, no, con la Cina, no adesso con l’Europa – come in una bussola impazzita il cui ago si affanna a ritrovare una strada smarrita, c’è una bussola almeno che rimane uguale e indica ostinata il suo Nord, che è Cristo.
Nel nome del quale ogni vittima è inaccettabile, e ogni morto bambino chiama Dio a giudicare. Rappresaglia, necessaria ragion di Stato, visioni strategiche, ci viene detto. Ma sappiamo che di tutti quei figli si dovrà rispondere a Dio. Anche i loro capelli erano contati, agli occhi di Dio: di quelle migliaia di seppelliti nelle case crollate, di quelli chiusi in fagotti bianchi e cullati da madri ammutolite, come ancora dormissero. Il mondo è un continuo susseguirsi di stragi sommerse. Questa di Gaza però ci atterrisce di più, perché è compiuta dagli eredi degli scampati ai pogrom e ai lager per le mani dei loro figli ventenni, che spesso non vorrebbero partire. Ma almeno, nel cuore della tragedia, esserci; a quel cancello, bussare, e portare la propria faccia. Come ha fatto in Ucraina in questi anni il cardinale Konrad Krajewski, Elemosiniere del Papa, che è andato a pregare sulle fosse dei massacrati di Bucha e in molti altri luoghi di sangue già dimenticati. Esserci, su quelle buche colme di morti. Questo, in guerre sempre “prossime alla tregua” e sempre avanzanti con i loro cannoni, ci dà almeno un conforto: Cristo c’è, in quei teatri di dolore, e il suo insegnamento è lo stesso, da duemila anni. Ago di bussola immobile, pietra miliare: amatevi come io ho amato voi. Tutto il resto, confini, Governi, parole, minacce, dazi, trema nel 2025, come in un sisma continuo. La parola di Cristo, ferma, ignara di ogni indice e Dow Jones e Borsa e summit. Una parola per sempre – un Dio venuto fra gli uomini, per sempre fra noi.
© RIPRODUZIONE RISERVATA





