sabato 11 aprile 2015
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Volevo vendicarmi, ha detto Claudio Giardiello ai carabinieri che lo hanno preso infine con la pistola in tasca, e un colpo ancora in canna. Vendicarsi, di che? L’assassino del Palazzo di Giustizia ha dietro di sé una costellazione di fallimenti, uno in fila all’altro, come se ogni cosa che toccava si sfasciasse; un’accusa di bancarotta, parecchi guai col fisco, l’abitudine ai bei vestiti e la passione per l’azzardo, e, sempre, problemi di soldi: che ora gli scorrevano in tasca abbondanti, ora, come negli ultimi tempi, gli erano svaporati fra le mani, e anzi erano solo debiti, debiti, e per milioni.57 anni e, alle spalle, un sacco di errori, ma quell’uomo voleva vendicarsi «di chi lo aveva rovinato». Giudici, avvocati, soci: tutti nemici, tutti dovevano pagare. Se non li avesse trovati in tribunale, probabilmente li avrebbe aspettati fuori, o sotto casa, e allora le pure giustificate polemiche su metal detector e sicurezza sarebbero state vane. L’imprenditore fallito covava dentro una rabbia esplosiva, che almeno per qualche verso ricorda il co-pilota Lubitz. Anche lui, a torto o a ragione, si sentiva un fallito, perché non sarebbe diventato il pilota delle rotte oceaniche che aveva sognato; anche lui, del suo presunto fallimento, si è follemente vendicato, e con una strage di estranei innocenti.Una volta, al vertice di una serie di rovesci di fortuna ci si poteva aspettare il gesto, tragico, di un suicidio; ma non, o raramente, la vendetta assassina. Che sembra scaturire da una non percezione della propria responsabilità, per i guai in cui ci si viene a trovare: quest’ansia rabbiosa disegna invece un uomo che si ritiene giusto e perseguitato, o emarginato. Un uomo che, come nel caso di Giardiello, è incapace di imputare a sé una raffica di fallimenti. È, sempre, colpa di altri. La tragedia di Milano pare quella di un uomo che non ha mai saputo dire: mi dispiace, ho sbagliato.Un’abitudine, quella di sapersi guardare e riconoscere colpevoli, che è alla base della pedagogia cristiana, ma da decenni è dimenticata. Tutto può fare l’uomo che oggi ci viene proposto a modello, e non ha mai bisogno di farsi perdonare. Di modo che, quando gli errori comunque lo conducono al fallimento personale, ci deve essere pure qualcuno da accusare. E giudicare. Gli altri, ecco: agli "altri", si deve farla pagare. Certo, queste esplosioni si radicano in una profonda solitudine, nel vuoto di chi non ha nessuno cui davvero confessare la propria dolente impazzita "verità", nessuno che dica: calmati, sei fuori di te, ragiona. Ma, se solitudine e mancanza di coscienza delle proprie responsabilità si vanno alargando, quante telecamere ci vorranno per fermare le vittime immaginarie e impazzite di torti inesistenti? Temiamo che non ne basterebbe una ad ogni angolo di strada, né schiere di agenti armati. Perché è là forse, dietro l’anonima finestra di una casa come le altre, che cova, in un uomo che pare come gli altri, una muta rabbia.E allora dobbiamo forse riconoscerci, sotto a tutti gli occhi elettronici che ci sorvegliano, più fragili? Sì, più fragili, dentro a una falsa onnipotenza coltivata, a una coscienza smemorata, a legami forti smarriti. L’esplosione di vendetta di Milano ci insinua lo sgradevole dubbio che non siamo mai garantiti, nemmeno del domani. E certo ci è stato detto tanto tempo fa, che «non sappiamo il giorno, e l’ora» – ma ultimamente, padroni immaginari del mondo, ce ne siamo un po’ dimenticati, e non ci piace che ce lo si ricordi. E aumenteremo metal detector, e telecamere, che spieranno giorno e notte le nostre strade. Ma non sapranno mai cosa c’è nei pensieri degli uomini che passano, in giacca e cravatta magari, eleganti, e rispettabili. Nemmeno mille telecamere bastano, per vedere nel cuore di un uomo.
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