sabato 12 ottobre 2019
Torniamo a chiederci perché aumentano i morti sul lavoro in un Paese che fonda la propria democrazia sul lavoro, non sulla morte del lavoratore
Basta con le vittime del lavoro (Ansa)

Basta con le vittime del lavoro (Ansa)

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Anche questa domenica, 13 ottobre, nella Giornata nazionale per le vittime del lavoro, ci si chiede perché aumentano i morti sul lavoro. Dovremmo chiederci perché non diminuiscono, come ci aspetteremmo in un Paese che fonda la propria democrazia sul lavoro, non sulla morte del lavoratore. Poco importa se siamo sotto o sopra i mille morti l’anno, è comunque strage ogni giorno: in Italia il lavoro uccide una persona ogni otto ore, ne ferisce una ogni 50 secondi. Il nostro Paese ha una strana memoria delle stragi, di quelle sul lavoro la memoria è ancora più corta. Ogni anno ricordiamo i 262 morti di Marcinelle, più della metà minatori italiani emigrati in Belgio, ma dimentichiamo che ogni tre mesi in Italia abbiamo un numero di morti pari a quelli di Marcinelle.

Non occorre e non è utile aumentare le pene, che peraltro si applicherebbero solo per il futuro. Basterebbe consentire l’applicazione delle normative in vigore da oltre 11 anni per prevenire prima che reprimere.
Gli infortuni non diminuiscono perché v’è la possibilità di sfuggire alle norme sulla prevenzione. Sono diminuiti invece gli ispettori delle Asl, si attendono gli ispettori del lavoro, sono sempre troppi gli organi di vigilanza che non riescono a coordinarsi, e ogni Regione ha una propria politica di prevenzione, con diverse sensibilità rispetto alle imprese. Venti diverse politiche, mutevoli in base al quadro politico, oltre quella statale articolata a sua volta in diversi enti, sono veramente troppe.

La parola magica invocata da sempre è "coordinamento", ma nessuno ha il dovere di farlo e di imporlo. La confusione assolve l’inerzia e genera omissione dei rarissimi controlli, il terreno migliore per l’illegalità del lavoro. Per evitare disordine e realizzare un’unica strategia preventiva, sarebbe giusto e saggio abbandonare l’idea della riforma del 1978 di confinare la tutela della sicurezza nell’ambito del sistema sanitario e concentrare tutte le competenze in capo a un unico organo di vigilanza, un’Agenzia nazionale per la sicurezza del lavoro, con l’unificazione delle banche dati che in questi anni nessun Governo ha realizzato. In modo analogo a quello che è avvenuto in campo ambientale con Arpa e Sistema nazionale della prevenzione ambientale.

Uno Stato che vuole garantire sicurezza deve raccogliere e spendere le migliori conoscenze tecniche, investigative, scientifiche, amministrative e produrre un’energica politica preventiva. Di questa si avvantaggerebbero soprattutto le imprese sane, che altrimenti subiscono la concorrenza sleale di chi opera nell’illegalità del lavoro. Anche l’apparato giudiziario ha responsabilità: molti processi iniziano male e finiscono peggio, per l’errata identificazione dei soggetti realmente responsabili e per l’individuazione delle cause.

Ma anche per la sostanziale ultradecennale disapplicazione del decreto 231 del 2001 sulla responsabilità delle imprese, e soprattutto per i tempi della risposta giudiziaria rispetto alle attese di giustizia. I processi sono più veloci quando nascono da buone indagini per fare le quali occorre una polizia dedicata, specializzata, competente. La concentrazione delle conoscenze, almeno a livello distrettuale, agevolerebbe efficacemente competenze, qualità e tempi della risposta di giustizia.

Dovremmo, poi, anche chiederci non solo perché, ma anche chi muore di lavoro.

Il lavoro uccide e ferisce più uomini che donne, più al Sud che al Nord, più in agricoltura ed edilizia che in fabbrica; chi è addetto a macchine e impianti più che in uffici; colpisce i lavoratori in nero e quelli in grigio, fittiziamente regolari, chi ha un datore di lavoro attento più al profitto che alla persona, chi ha paura a rivendicare il proprio diritto alla salute, alla vita, alla dignità. Quindi i più deboli.

Guardando la curva degli infortuni sul lavoro negli ultimi trent’anni si osserva che non v’è alcuna relazione diretta con l’indice di disoccupazione o con l’andamento dell’economia, non è vero che diminuendo il lavoro, cala il numero degli infortuni, e viceversa. Gli incidenti sul lavoro non sono, quindi, il prezzo della crescita o il frutto della decrescita economica. Ogni infortunio pesa sul Pil, grava sul sistema sanitario, previdenziale, assicurativo, amministrativo e giudiziario, ferisce l’economia sana, lo stato sociale, tutti noi. La legalità è il potere dei senza potere, la legalità del lavoro è l’unico potere dei più deboli.

Bruno Giordano è magistrato presso la Corte di Cassazione

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