Settant’anni dopo Roma 1960, quando le Olimpiadi del 'miracolo economico' simboleggiarono il ritorno a testa alta del nostro Paese sulla scena internazionale, ad appena 15 anni dalla fine di una guerra disastrosa, la Capitale d’Italia si rimette in gioco per un appuntamento di grande significato. La candidatura a sede dell’Esposizione universale del 2030, annunciata ufficialmente ieri dal premier Draghi, lancia alla 'Città eterna' una sfida e, al tempo stesso, una opportunità che non è esagerato definire storica.
Il presidente del Consiglio ha scelto di comunicare la decisione del governo a cinque giorni dall’apertura delle urne per l’elezione del sindaco e del nuovo Consiglio comunale. Aveva tempo per farlo ancora un mese, ma ha voluto uscire allo scoperto adesso, informandone gli stessi quattro candidati principali che a fine giugno gli avevano chiesto di impegnare tutto il suo esecutivo per RomaExpo 2030. In tal modo, ha certamente evitato che il suo via libera o il suo diniego potessero suonare come un appoggio o una sfiducia, a posteriori, al vincitore della corsa per il Campidoglio.
Ma è stata una scelta apprezzabile non solo sul terreno dell’opportunità politica. C’è anzi da augurarsi che la notizia arrivi come un colpo di frusta sulla campagna elettorale ormai alle ultime battute, che gli aspiranti primi cittadini siano consapevoli di quanto il loro ruolo, in caso di vittoria, sarà fondamentale nella dura competizione internazionale che tutto il Paese dovrà affrontare. Tra le candidature già annunciate per ospitare l’appuntamento del 2030 ci sono già infatti 'nomi' forti come Mosca, Riad e la coreana Busan. Ma altri potranno aggiungersi ed è chiaro che le chances di aggiudicarsi l’assegnazione andranno costruite nei prossimi 4-5 anni.
C’è poi da sperare che l’annuncio di Draghi riesca ad alimentare, accanto allo zelo dei politici locali e nazionali, l’interesse dell’intera comunità cittadina. Anche la proverbiale indolenza dei 'Quiriti', sempre più declinante ormai verso uno stato di passiva rassegnazione, dovrebbe scuotersi davanti alla possibilità di tagliare un traguardo del genere. Non è possibile che il dibattito locale si incentri solo sugli 'atri muscosi' dei quartieri (non più solo periferici) popolati dai cinghiali o sui 'fori cadenti' di un centro storico invaso dalle erbacce. Sarà ora che anche Roma 'sollevi la testa' per guardare a un orizzonte più ampio del Grande raccordo anulare.
Le reminiscenze 'manzoniane' non sembrino leziose. Servono a suggerire un riferimento, peraltro d’obbligo, al precedente di Milano 2015, al successo di un’Esposizione accolta con scetticismo e che, invece, ha giovato alla città e all’intera Lombardia, che ha dato impulso a innovazione e iniziative imprenditoriali e che ha restituito alla metropoli lombarda immagine e caratura internazionale. Le ricadute positive di un’impresa come l’Expo, se ben guidata e realizzata, sono intuibili non solo a livello economico, ma anche civile e culturale.
Vanno tuttavia tenute presenti due condizioni fondamentali. La prima è che lo slancio corale e l’entusiasmo delle realtà produttive non lascino in secondo piano l’impatto sulla vita quotidiana dei cittadini e soprattutto delle fasce oggi più in difficoltà. Andrà cioè costruita una sorta di 'Vis' una Valutazione d’impatto sociale - di quanto si vorrà mettere in cantiere, per evitare che l’Expo finisca per alimentare la cultura dello scarto sulla quale un importante 'civis' romano come papa Francesco insiste in ogni occasione. Da questo punto di vista, il progetto elaborato dal comitato promotore della candidatura, con l’idea di una città 'orizzontale' più aperta e a misura d’uomo, rappresenta un buon punto di partenza.
La seconda condizione è che la mole di risorse finanziarie destinata a essere messa in campo sia accuratamente protetta dagli inevitabili assalti dell’affarismo, della corruzione e del crimine organizzato in tutte le sue tentacolari manifestazioni. Di tutto ha bisogno Roma per riconquistare il suo ruolo, meno che di un 'sacco' edizione 2030.