giovedì 15 luglio 2021
Il capo del Pentagono, responsabile per aver eliminato Saddam e sconfitto i taleban, nelle sue memorie ha difesa una strategia estera che puntava a rendere il mondo "più stabile e più sicuro".
Soldati afghani a un check point ad Herat

Soldati afghani a un check point ad Herat - Ansa

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Per uno dei frequenti paradossi della Storia, negli stessi giorni in cui si sta compiendo il ritiro americano dall’Afghanistan si è conclusa anche la vicenda terrena di Donald Rumsfeld, il roccioso segretario alla Difesa americano che della campagna contro i taleban prima e contro Saddam Hussein poi era stato lo stratega supremo. Per molti il ricordo di questo ruvido ideologo di simpatie neocon fatica a spingersi oltre gli anni roventi che seguirono l’11 settembre, durante i quali ideò l’operazione "Enduring Freedom" e la successiva invasione dell’Iraq e dove proprio su questa cadde per le polemiche seguite allo scandalo delle torture americane nel carcere di Abu Ghraib.

Lunga viceversa è la storia di questo enfant prodige del Partito repubblicano, nato nel sobborgo di Chigago di Evanston nel 1932 – il padre era di origini tedesche – e cresciuto nella comunità protestante di Winnetka nell’Illinois, quindi studente di Scienze Politiche a Princeton, pilota e istruttore di volo in Marina, dilettante di successo nel wrestling, giovanissimo sposo della compagna di università Joyce H. Pierson (che gli darà tre figli), fino al balzo in politica nel 1962 all’età di trent’anni come membro della Camera dei Rappresentanti, carica che tra le altre cose gli assicurò una ragguardevole competenza sulla macchina militare americana e un forte scetticismo sull’esito dell’intervento di Washington in Vietnam. Buon profeta, propose di sostituire la coscrizione obbligatoria - dopo l’incidente del Golfo del Tonchino, l’America in fiamme bruciava in segno di protesta le draft-card, le cartoline precetto che altro non erano che una drammatica lotteria per i giovani dai 18 ai 24 anni, il cui premio era la giungla e le risaie vietnamite - con un esercito di soli volontari.

Una foto rimasta memorabile lo ritrae con il figlio Nick nello Studio Ovale insieme a Richard Nixon. Era l’epoca in cui Rumsfeld veniva chiamato – senza ironia alcuna – il "John Kennedy del Grand Old Party": una sorta di foglia di fico che l’ala più guerrafondaia del partito esibiva per placare come poteva l’opinione pubblica. Nixon lo mandò ambasciatore alla Nato, Gerard Ford lo rivolle alla Casa Bianca come capo di gabinetto. Imparava, il quarantenne Rumsfeld, imparava rapidamente – il suo vice era Dick Cheney – e contemporaneamente ambiva al posto di segretario alla Difesa. Che Ford gli assegnò nel pieno della crisi in Vietnam. Un anno dopo Saigon cadeva, l’ultimo elicottero americano si levava dal tetto del palazzo presidenziale con la bandiera a stelle e strisce ripiegata e 58000 giovani americani caduti sul campo insieme a milione di vittime civili. Good Morning, Vietnam. Anche Rumsfeld, caduto Ford, dovette lasciare. Era stato il più giovane titolare del Pentagono di ogni tempo.

Tornerà a occupare quella scrivania venticinque anni più tardi, chiamato da George W. Bush all’indomani dell’attentato alle Torri Gemelle. Sessantenne, il Rumsfeld kennediano aveva lasciato il posto a un teorico della guerra preventiva, del regime change, il cambio di regime indotto dall’esterno, caro a Bush, e dell’exporting democracy, l’esportazione della democrazia, come la conseguenza inevitabile della politica estera americana. «Se non riesci a risolvere un problema – diceva –, ingrandiscilo». I mass media la chiamarono "Dottrina Rumsfeld", non senza una preoccupata attenzione allo strapotere che il dominus del Pentagono aveva garantito alle forze armate, quasi una repubblica autonoma all’interno della presidenza, capace di progettare e attuare una sorte di never ending war, una "guerra infinita" figlia – una volta caduto l’impero sovietico – dell’effimero convincimento delle élite più conservatrici circa l’invincibilità della macchina bellica americana. Un potere che aveva creato il carcere extraterritoriale ed extragiudiziale di Guantánamo e il ricorso sistematico alle tecniche di tortura durante gli interrogatori, nonché l’inesistente attribuzione di ordigni di distruzione di massa nell’Iraq di Saddam .

L'addio americano dopo vent’anni alla base aerea di Bagram in Afghanistan, la stessa che i sovietici avevano costruito e poi lasciato nelle mani dei mujaheddin, è il beffardo epitaffio di un’ideologia che uomini come Rumsfeld, come il vicepresidente Cheney, come il diplomatico Paul Wolfowitz avevano elaborato, perseguito e difeso fino all’ultimo. Fino alla svolta che Barack Obama impresse alla politica estera americana, quel leading from behind (letteralmente: guidare stando dietro), che privilegiava i droni e le bombe di precisione rispetto agli scarponi sul terreno degli anni caldi del conflitto vietnamita e dell’invasione dell’Afghanistan e dell’Iraq. Con il risultato che il disimpegno americano in Medio Oriente e in Libia – e qui non è il solo Rumsfeld a sostenerlo – ha finito con il dare vita agli anni bui del Daesh. Ma Rumsfeld non ha fatto mancare le proprie critiche anche al segretario di Stato Condoleezza Rice, considerata 'incapace, inadatta, immatura per il compito' nonostante proprio con lei avesse concordato le misure contro al-Qaeda.

Dieci anni dopo Ground Zero Rumsfeld ha difeso con zelo le proprie scelte: aver eliminato Saddam (al prezzo di 700 miliardi di dollari e di 4.400 caduti nelle forze armate americane) e sconfitto i taleban – così ha scritto nelle sue memorie – aveva reso il mondo "più stabile, più sicuro e più libero". Non era vero, e si è visto. Ma Rumsfeld faceva parte di quella covata di conservatori come George W.Bush e Dick Cheney convinti che esportare la democrazia e scatenare guerre preventive fossero le armi vincenti e indispensabili per un’America guardiana del mondo libero. Certo, la guerra ai taleban e a Saddam l’aveva vinta, ma il dopoguerra in entrambi i Paesi è stato tragico. Quelle guerre-lampo teorizzate da Wolfowitz e caldeggiate da Rumsfeld non hanno impedito nei vent’anni successivi lo stillicidio di vite umane, mezzi, investimenti. Tutto inutile, ora che i taleban si apprestano a riprendere le chiavi dell’Afghanistan e droni armati di probabile matrice iraniana colpiscono l’ambasciata americana a Baghdad e una serie di installazioni militari.

Perseguitato dal suo personale Vietnam e incapace di rinunciare all’usuale arroganza, nel 2016 Rumsfeld ha pubblicamente annunciato il suo sostegno elettorale a Donald Trump. Dei due Donald lui è stato senz’altro il precursore, anticipando quel nichilismo politico che già aveva cominciato a trasformare dall’interno il partito repubblicano, fino sfigurarlo definitivamente con il rumoroso affacciarsi sulla scena del tycoon newyorkese. Il che non priva Rumsfeld di una sua oscura grandezza, quella di un uomo di Stato che paradossalmente ha dato il meglio dando il peggio di sé; e questo è solo apparentemente un ossimoro: rispetto alla sgangherata condotta dell’altro Donald, la parabola di Rumsfeld appare comunque come una coerente visione politica, se pure per molti versi esecrabile.

Gli ultimi anni li ha trascorsi insieme alla moglie Joyce nel buen retiro di Taos, in New Mexico, un buco sperduto meta e sede di decine di poeti e scrittori liberal, nessuno dei quali, siamo pronti a scommettere, ha mai speso una parola in suo favore. Lì si è spento pochi giorni prima di compiere ottantanove anni, consumato dal mieloma multiplo che lo aveva colpito già da tempo. L’America che per qualche anno contribuì a guidare a briglie serrate, caricatura a volte penosa di un condottiero che ha sbagliato epoca, aveva già voltato pagina. Il multilateralismo di Joe Biden sostituiva la politica muscolare di Donald Trump e riprendeva in parte il solco tracciato da Obama. Una dottrina che il vecchio Donald (inteso come Rumsfeld) non avrebbe mai approvato.

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