sabato 6 marzo 2010
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Nel "pasticciaccio brutto" originato dall’esclusione delle liste e dei listini del Pdl e del Centrodestra nel Lazio e in Lombardia, non è facile rintracciare elementi di buon senso e razionalità politica. Ma, se si riflette a mente fredda, a nessuno può sfuggire l’abnorme anomalia, in un assetto ormai bipolare, di un eventuale confronto elettorale privato in partenza di uno dei due principali competitori. Quale legittimità democratica sostanziale potrebbero vantare un presidente, una giunta, un consiglio regionale insediati senza la partecipazione o a dispetto di una fetta rilevante, quando non maggioritaria, di elettorato? Ma la posta in gioco è, a ben vedere, molto più alta della guida delle due più importanti regioni italiane: e riguarda la credibilità stessa della politica al cospetto di un’opinione pubblica sempre più attonita (o, peggio, indifferente) di fronte a scandali, a trasversali episodi di corruzione, a beghe e a "pasticci". Un’opinione pubblica che, nel caso della classe politica, è sempre meno disposta a fare sottili distinzioni e sempre più propensa a fare di tutt’erba un fascio. Anche tra alcuni esponenti delle opposizioni si è fatta largo l’idea che una vittoria ottenuta a tavolino, senza giocare la partita, non sia quanto di più desiderabile. Ne hanno parlato esplicitamente Massimo Cacciari e Luciano Violante. E altri in modo più sommesso e altalenante. Anche Umberto Bossi, che aveva accusato subito l’alleato-competitore di "dilettantismo", si è poi ricreduto. Si tratta di segnali di disponibilità, piccoli o grandi che siano, che non dovrebbero essere lasciati cadere. Ma occorrerebbe, tra gli esclusi, più che un atteggiamento rivendicatorio una predisposizione autentica al dialogo. Proviamo un attimo a ragionare, con pacatezza, sui termini della intricata questione. Nessuno può mettere in dubbio che le regole vadano rispettate, sempre e comunque. Per questo, occorrerebbe preliminarmente chiarire, da parte dei dirigenti del Pdl, che la responsabilità dell’accaduto va rintracciata principalmente negli errori compiuti da parte dei presentatori delle liste escluse. Questa ammissione preventiva comporta dei corollari fondamentali: l’archiviazione della scivolosa tesi del complotto della magistratura; la rinuncia ai toni bellicosi e a tirare per la giacca il capo dello Stato, che si è mosso in questa vicenda con prudenza ed equilibrio; e soprattutto la rinuncia alla tentazione della protesta di piazza. Protesta che a rigor di logica dovrebbe essere indirizzata – con i rischi evidenti di un pericoloso cortocircuito – non verso chi ha applicato le regole (i magistrati), ma verso chi le regole le ha stabilite o non le ha riformate (i politici). Detto questo, occorre far presente che le norme stabilite a suo tempo per la presentazione delle liste avevano come obbiettivo dichiarato quello di frenare la proliferazione eccessiva di simboli eccentrici, liste fai da te,  movimenti di puro disturbo, partitini senza alcun riscontro, evitando le schede-lenzuolo. E non certo di tagliare fuori dalla competizione elettorale formazioni politiche rilevanti, che godono del consenso dei cittadini e i cui rappresentanti siedono già nelle assemblee elettive. Da qui bisogna pur partire. E, di fronte ad argomenti sostanziali, come quello del diritto fondamentale del popolo di scegliere i propri rappresentanti, ripetere ossessivamente ad alta voce il mantra del rispetto formale delle regole appare un esercizio interessato, che verrebbe sicuramente frainteso da larghi strati dell’opinione pubblica. E al quale mai come stavolta si potrebbe rispondere con l’intramontabile detto latino «summum ius, summa iniuria». Resta, forse, una sola strada, anche se stretta: il dialogo, e nelle sedi proprie. Ieri sera il governo ha approvato un decreto interpretativo delle norme, per sanare l’anomalia. Ora tocca anzitutto al presidente Napolitano valutarlo. Poi andrà cercato, senza furbizie, il massimo del consenso possibile. Si apra in Parlamento un dibattito onesto e franco sull’accaduto, senza negare responsabilità e problemi. In questo modo gli elettori potranno giudicare la credibilità, il senso dello Stato, gli errori dell’una e dell’altra parte politica. E regolarsi di conseguenza, in una chiamata alle urne non dimezzata.
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