martedì 22 febbraio 2011
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Il fumo dei mitragliamenti di Bengasi e delle bombe sganciate sulla capitale Tripoli ci impediscono di vedere ma, al tempo stesso, dicono tutto. Ad esempio, il prezzo che i libici sono disposti a pagare per liberarsi della famiglia Gheddafi, sfidando quelle armi che con troppa disinvoltura molti Paesi hanno fornito al rais dopo la conversione filo-occidentale. Secondo gli ultimi dati disponibili (2007), la Libia, con soli 6,5 milioni di abitanti, è il quarto acquirente di armi dell’Africa Settentrionale (e il nono miglior cliente delle fabbriche italiane d’armamenti), con una spesa annua di 423 milioni di euro. Ma, soprattutto, non c’è repressione, per quanto feroce, che possa impedire due riflessioni. La prima: ora che le rivolte hanno sconvolto per intero il Maghreb, dal Marocco (dove ci sono stati altri morti) alla Giordania, capiamo che l’architrave degli assetti regionali sta proprio in Libia. In Egitto e in Tunisia, la transizione verso nuovi regimi forse più democratici, pur dolorosa, si è avviata senza salti nel buio, con la partecipazione decisiva e organizzata delle forze armate, l’istituzione più compatta e meno screditata. In Libia, invece, il rivolgimento potrà solo essere radicale o non essere, e il bagno di sangue è già inevitabile. Quarant’anni di potere spregiudicato e tirannico hanno inciso tracce profonde nell’animo della gente. E la politica di spogliazione del clan Gheddafi ha provocato l’indignazione di molti e l’ambizione di altri. Fatichiamo a capire che cosa stia davvero succedendo a Tripoli e nelle altre città, ma ancor più difficile risulta immaginare il Paese che uscirà da tanta violenza. Abbiamo un’unica certezza, ed è la seconda riflessione: nulla sarà più come prima. Da questo punto di vista la sorte di Muhammar Gheddafi è indifferente. Se sarà sconfitto e cacciato, l’Italia e l’Europa avranno interlocutori nuovi e imprevedibili. Se il Colonnello riuscirà invece a restare in sella, l’avrà fatto solo al prezzo di stragi orrende. L’Europa (e l’Italia in particolare) che oggi gli chiede, e anzi quasi gli grida, di fermare le violenze potrebbe di nuovo averlo come interlocutore? Considerarlo un partner affidabile nella politica di contenimento dell’immigrazione irregolare? Firmare altri contratti per il petrolio e per il gas? Ospitarlo nelle proprie capitali, con tende, guardie del corpo e lezioni sul Corano incluse? Le poche notizie che arrivano in queste ore dalla Libia raccontano di ministri che si dimettono, unità dell’esercito che si ribellano, ambasciatori che disertano. E di civili massacrati per le strade. Bengasi e Al Bayda sono nelle mani dei ribelli e a Tripoli per la seconda notte consecutiva si è combattuto tra le case. È la fine violenta di un regime violento. Per un crudele paradosso, proprio il Paese più chiuso del Maghreb ora ci interpella nel modo più pressante. E ci propone la sfida più complessa. La richiesta di democrazia e benessere che viene dalle popolazioni del Maghreb non può essere ignorata, e deve anzi essere appoggiata. Ma i legittimi interessi dei nostri Paesi (gestione dei flussi migratori, forniture energetiche regolari, scambi commerciali ordinati, rispetto dei patti e degli accordi siglati) non devono essere sottovalutati. È un intreccio, che oggi però cambia trama. Si apre, appunto comunque vada, una stagione nuova nella millenaria vita dei popoli del Mediterraneo. Potremmo persino sperare che questi poveri morti della Libia servano a dare uno scossone alla vecchia e tremolante Europa. A farle capire quanto grande sia ancora, almeno in potenza, il suo ruolo sulla faccia del mondo.
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