mercoledì 1 giugno 2011
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Il governatore della Banca d’Italia, e prossimo presidente della Bce, ha concluso ieri le sue ultime Considerazioni finali con lo stesso monito col quale le aveva avviate cinque anni fa: «Tornare a crescere». Segno che un lustro e due maggioranze diverse sono passati quasi invano. Ma insieme che il destino del Paese, oggi «insabbiato» sul piano economico non meno che su quello sociale, è tutt’altro che segnato. A patto che si prendano finalmente in mano le questioni fondamentali, le esigenze profonde di cambiamento che la crisi ha reso ancora più evidenti e scottanti.Nell’intervento di Mario Draghi si può leggere in filigrana una mappa del percorso necessario per innescare un nuovo sviluppo. A cominciare dalla stabilizzazione dei conti pubblici grazie alla «contrazione della spesa primaria corrente». Da ottenere però non con «tagli uniformi a tutte le voci». Oggi più che mai, infatti, è il momento di operare scelte precise: l’allocazione delle risorse, la suddivisione di compiti e oneri fra lo Stato e gli enti locali, fra il mercato e il privato sociale, tra la comunità e i singoli cittadini è una delle responsabilità più importanti che la politica deve tornare ad assumersi. È la trama sulla quale si tesse il modello di un Paese, come dimostra in Gran Bretagna il progetto di Big society e come promette da noi l’evoluzione dell’idea di sussidiarietà. La seconda tappa, alla quale è necessario approssimarsi al più presto, è poi quella della riforma fiscale per ridurre «in misura significativa le aliquote, elevate, sul reddito dei lavoratori e delle imprese». E – aggiungiamo con forza – riequilibrare i pesi in base ai carichi familiari.C’è però almeno un’altra questione che non può essere più rinviata: l’intervento sul mercato del lavoro per superare il dualismo tra lavoratori garantiti e no, di fatto tra "anziani" e giovani, che penalizza pesantemente questi ultimi «con scarse tutele e retribuzioni». Condannandoli spesso a un precariato non solo economico ma di vita, che fa crescere già fragili i pilastri sui quali dovrà reggersi il nostro futuro. La flessibilità, che pure ha contribuito a far innalzare i tassi di occupazione, è infatti «oggi tutta concentrata nelle modalità d’ingresso» e si rende necessario «un riequilibrio». Da un lato scoraggiando, con la leva dei costi e i controlli sulle aziende, l’abuso delle posizioni a termine e di collaborazione. Dall’altro però riconsiderando anche la flessibilità in uscita, le norme sui licenziamenti.Su questo nodo sono state elaborate almeno due proposte significative. La prima è quella del ministro Maurizio Sacconi di far evolvere il "vecchio" Statuto dei lavoratori in uno "Statuto dei lavori", così come lo aveva immaginato Marco Biagi, con protezioni a cerchi concentrici e crescenti secondo l’anzianità del lavoratore. Un testo di base è già stato sottoposto alle parti sociali nella speranza (probabilmente vana) di arrivare a un avviso comune. La seconda è il progetto di flexsecurity del senatore Pd Pietro Ichino, che prevede un contratto (quasi) unico a tempo indeterminato, licenziabilità per i nuovi assunti per motivi economici con indennizzo monetario e un consistente sussidio di disoccupazione, finanziato anche dalle imprese. E ancora potremmo ricordare il contributo in materia delle Acli e il dibattito che, pur sottotraccia, percorre le organizzazioni sindacali.Dopo gli anni della furia – cieca e persino assassina – sull’intangibilità dell’articolo 18, oggi sarebbe utile riprendere il filo razionale di una riforma possibile. Per far compiere uno scatto in avanti al nostro sistema economico, garantendo nel contempo la coesione sociale del Paese, grazie al superamento dell’apartheid contro i giovani e ad ammortizzatori sociali più consistenti e generalizzati di quelli attuali. Non può esserci crescita senza dinamismo politico e sociale, e se non ci si assume la ragionata responsabilità di cambiare ciò che va cambiato.
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