mercoledì 17 novembre 2010
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Sa parlare è Roberto Saviano, le «orazioni» sono «civili» e i monologhi «potentissimi»: lo asseriscono i comunicati di Rai 3 e tutte le agenzie di stampa devotamente rimbalzano. E chi oserebbe dissentire? Nemmeno chi non ha mai letto una sola riga di Saviano se la sentirebbe più di mettere in dubbio le sue verità assolute: perché Saviano è Saviano, un po’ come Sanremo. E così, di guru in guru, se un Saviano e un Fazio uniscono le sapienze, il risultato non può che essere indiscutibile. La tecnica è antichissima, valida ai tempi delle Catilinarie come a quelli del tivucolor: se passa l’assunto che l’oratore non solo non può mentire ma nemmeno sbagliare, ciò che dice è sempre «indiscutibilmente» vero e chiunque lo metta in dubbio sarà esposto al pubblico ludibrio. Raggiunto tale risultato, non sarà più nemmeno necessario fingere di rispettare le regole minime del dibattito e della ricerca di una verità: largo ai tribuni e ai loro monologhi, senza mai un contraddittorio. E il pubblico (del foro come del piccolo schermo) si berrà tutto come vero: «L’ha detto la tivù!».Anche la Rai di Fabio Fazio è (o dovrebbe essere) servizio pubblico, anche la sua è pagata da tutti gli italiani (almeno quelli che versano il canone), eppure l’uso che ne fa, in compagnia dei suoi ospiti, è di un salotto privato dal quale diffondere e inculcare quelli che ritiene «valori» e «princìpi di civiltà» (è suo diritto), ma che per la gran parte degli italiani sono disvalori gravissimi (e tener conto di questo è invece suo preciso dovere). Anche l’altra sera, com’è suo costume, la tribuna l’ha quindi concessa, senza contraddittorio alcuno, oltre che a Saviano anche a Beppino Englaro e a Mina Welby, chiamati a recitare ognuno il suo "elenco" di verità inoppugnabili. Nessuno toglie loro il diritto di avere certezze e convinzioni, più o meno fondate, ma nessuno può nemmeno imporle a noi come fossero Vangelo, eppure questo è stato fatto ancora una volta ai milioni di telespettatori seduti davanti a "Vieni via con me". Togliere la vita a Eluana è stata cosa buona e giusta? Basta che lo dicano Fazio, e Saviano, ed Englaro che è pure suo padre (come potrebbe sbagliare?), non occorre ascoltare con onestà intellettuale le voci opposte. Nessuno spazio alla sacralità della vita e al rifiuto di una pratica spaventosa come l’eutanasia, sebbene questa agiti ancora nella nostra coscienza memorie recenti e colpe incancellabili, e nel nostro Paese sia un reato punito alla stregua di un omicidio.Si gioca con le parole, si evita accuratamente di pronunciare il termine "eutanasia" (salvo invocarla in altre sedi e occasioni), la si sostituisce con «principio di diritto sancito dalla Cassazione in seguito alla vicenda Englaro». Non si dice, però, che dal giorno in cui la Cassazione stessa spianò la strada all’eutanasia di Eluana, e quindi di chiunque volesse seguire le orme di quel padre, nessuno lo ha fatto. Né si racconta la verità su Eluana, perché farlo lascerebbe attoniti gli italiani, ancora convinti che fosse malata, che fosse terminale, che vivesse attaccata a macchine, che soffrisse, e magari pure che la sua volontà fosse morire. E come mai ne sono convinti? Lo raccontarono all’epoca i Saviano e i Fazio... Di una Eluana condannata a «farsi tenere in vita per decenni dalle macchine» scrisse Saviano nel febbraio 2009, alimentando l’errore (speriamo in buona fede, forse non conosceva la materia); di lei parlò come di un «viso deformato, smunto, gonfio, le orecchie callose» e addirittura «senza capelli» (di nuovo lo giustifichiamo: a differenza nostra, la descriveva senza averla vista). E Fazio? Prima e dopo la morte della giovane invitò Englaro nel suo salotto privato di Rai 3, senza confronto, senza dibattito. Eluana fu spenta il 9 febbraio 2009, il 21 febbraio Fazio in diretta abbracciava Englaro: «Grazie a nome di tutti gli italiani per ciò che ha fatto». Di tutti gli italiani. È questo il suo stile, questo il giornalismo dei Fazio e dei Saviano. «Il giornalista non deve omettere fatti o dettagli essenziali alla completa ricostruzione dell’avvenimento. Non deve intervenire sulla realtà per creare immagini artificiose» (Carta dei doveri del giornalista, 8 luglio 1993).
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