mercoledì 7 ottobre 2015
Non comprendere la questione della religiosità frena anche la lotta al terrorismo. Giusto Schiacchitano
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I recenti fatti terroristici compiuti in Europa, in Africa, in Asia, sia contro musulmani che contro cristiani, hanno fatto emergere sempre di più l’esigenza che oltre a combattere il terrorismo oggi rappresentato dall’Is, occorre sviluppare un dialogo con l’islam, senza il quale la stessa lotta al terrorismo di matrice islamica risulta inefficace. La questione che, però, è altrettanto impellente riguarda il contenuto di questo dialogo: di cosa possiamo e dobbiamo parlare noi occidentali e l’islam, perché il dialogo possa essere veramente concreto e produttivo per entrambi?
Subito dopo i fatti di Parigi, tutte le Autorità nazionali e internazionali hanno sottolineato la necessità di assicurare maggiore sicurezza ai propri cittadini e finanziare maggiori investimenti per realizzare un più soddisfacente inserimento degli immigrati nei nostri Paesi; dopo Tunisi e dopo Il Cairo abbiamo, con convinzione, assicurato quei Paesi che saremo con loro nella lotta al terrorismo, con ciò stesso dichiarando di volere approfondire il dialogo per superare e vincere la spirale terroristica. Tutte queste dichiarazioni e i provvedimenti adottati sono assolutamente giusti e necessari, e tra questi indico anche le recenti norme italiane sul contrasto al terrorismo islamico con l’attribuzione alla Direzione nazionale antimafia della funzione di coordinamento nelle indagini in questa materia. Credo però che non siano sufficienti, anche se il tema che qui si intende trattare - la necessità del dialogo con l’islam - richiede tempi lunghi e preparazione culturale.
La scrittrice libanese Etel Adnan, citata dal 'Corriere della Sera' in un articolo di Roberta Scorranese del 18 gennaio 2015, ha ricordato a questo proposito che lo sguardo dell’Occidente è troppo impegnato nell’economia e nelle questioni militari per prendersi il tempo di capire davvero il retroterra storico e culturale del Vicino Oriente: è come se la cultura occidentale fosse arrivata a un tal punto di completezza da pensare che altri universi siano inutili. Forse è veramente così; e se è così, è una concezione errata. Credo poi che la concezione del mondo musulmano non sia molto diversa, e in questa visione simmetrica e opposta sta la difficoltà del dialogo. La completezza della cultura occidentale, cui la Adnan fa riferimento, è certamente quella che proviene dal mondo greco-romano e dal cristianesimo, dalla filosofia del secolo dei Lumi che ha operato la netta distinzione tra Trono e Altare, tra mondo civile e mondo religioso e ha prodotto nel tempo l’affermazione dei Diritti Umani quali valori universali. Noi, e in generale l’Occidente, in nome di questi Diritti, abbiamo ritenuto che la nostra cultura fosse in grado di assimilare facilmente altre culture: nei nostri Paesi è stata esperienza comune la convivenza con popolazioni di varie etnie, religioni, sistemi giuridici e sociali diversi: noi l’abbiamo chiamata multiculturalismo e abbiamo ritenuto che questa convivenza potesse facilmente essere pacifica.
Eppure è stato Benedetto XVI che dopo avere osservato che nel mondo si confrontano tradizioni culturali e antropologiche del tutto diverse da quelle che qualifichiamo come occidentali, ha rilevato che il fenomeno chiamato interculturalismo sembra, in vaste proporzioni, mettere in discussione la razionalità occidentale che si può riflettere nella stessa rivendicazione universalista della nostra cultura . (Cartabia Simoncini. 'La Legge di Re Salomone'. Discorsi di Benedetto XVI). Queste affermazioni meritano una riflessione maggiore di quella che finora vi è stata. I fatti di Londra e di Parigi, dove persone di seconda o terza generazione hanno compiuto gravissime stragi, ci dicono chiaramente che il modello di vita loro proposto era stato rigettato, naturalmente con metodi del tutto inaccettabili alla luce della nostra cultura. Le stragi in Siria e Iraq, ma anche in Nigeria e Tunisia, ci dicono che quei Diritti Umani che noi riteniamo universali, realisticamente tali non sono. Non lo sono, soprattutto, perché i princìpi occidentali non sono visti, da molta parte di quelle popolazioni, come frutto di una loro scelta razionale.
In occasione di una visita in Nigeria, organizzata
dalle Nazioni Unite e diretta a illustrare i princìpi della Convenzione dell’Onu del 2000 contro la criminalità organizzata transnazionale, che comprende la lotta alla tratta degli esseri umani e al traffico di clandestini, ci sentimmo chiarire da un delegato di quel Paese che i princìpi della Convenzione non rispondevano alle loro tradizioni e potevano essere considerati come una nuova forma di colonialismo culturale. Criminalità organizzata, terrorismo, economia sono le tre sfide globali che si stanno presentando contemporaneamente e oggi si presentano a noi come inestricabilmente intrecciate. Il dialogo con l’islam, ampio e concreto, è pertanto essenziale per le due parti. Ma è nel modo di proporre un suo modello di vita che forse l’Occidente non sa più comprendere la base della cultura islamica, che è impregnata del sentimento religioso.
In un incontro organizzato a Siracusa nel novembre 2014 dall’Istituto superiore internazionale di Scienze criminali (Isisc), giuristi italiani e iraniani si sono confrontati sul tema dei Diritti Umani nel campo penale; questo incontro - il primo tra i due Paesi - è servito per conoscere i princìpi cardine su cui si fondano i due sistemi e gettare le basi per un più profondo dialogo; ha avuto pertanto una grande importanza sul piano politico, giuridico, culturale.
L’Iran è uno Stato teocratico che si fonda unicamente sulla legge coranica, la quale non distingue tra potere religioso e potere civile; il giudice per esercitare bene la sua funzione deve essere anche un teologo; il teologo indicherà al legislatore quali norme varare perché il cittadino rimanga nella retta via. Tutta la vita del cittadino negli Stati a prevalente cultura islamica è pertanto segnata dalla religiosità dei cittadini musulmani e ogni singola attività, dalla più rilevante socialmente alla più insignificante e quotidiana, è scandita dal Corano o dagli insegnamenti del Profeta. La politica della sharia, è stato più volte ribadito nell’incontro, è essenzialmente una politica volta a promuovere la 'riconciliazione' della società, che si basa sulla conoscenza e la consapevolezza e non sull’ignoranza, e tutti gli uomini sono invitati a conoscersi e preparare il terreno per la reciproca comprensione.
Questi valori sono stati certamente il motivo per cui quell’incontro fra
giuristi verteva sui Diritti Umani in materia penale, anche se il presidente dell’Isisc ha comunque osservato che alcune riflessioni contenute nelle relazioni degli iraniani sciiti, non sono tutte condivise nelle scuole sunnite, e se va comunque ricordato che l’Iran non ha ratificato la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo perché ritenuta non del tutto compatibile con la sharia. Se la semplice affermazione dei princìpi dello Stato nella visione islamica fa risaltare la grande differenza che lo separa dalla Stato di diritto occidentale, tuttavia quell’incontro è stato importante per cominciare a comprendere cosa manca nell’approccio occidentale al mondo islamico. Il dialogo finora sviluppato ha evidentemente trattato materie importanti nelle relazioni tra Stati, ma non ha toccato la profondità della cultura islamica, impregnata di senso religioso. E forse non poteva che essere così. Nel mondo occidentale (che i musulmani indicano genericamente come mondo cristiano) le autorità civili trattano le materie che sono proprie del mondo civile (quelle in fondo ricordate da Etel Adnan) e non quelle del mondo religioso; lasciano quindi ad altre Istituzioni (per esempio, la Chiesa) il dialogo su questi temi. In questo modo però il dialogo (dal punto di vista musulmano) non è mai completo, è sempre monco. La cultura e la politica occidentali dovrebbero essere consapevoli che se si limitano a guardare a sicurezza e aspetti economici, rispetto all’universo islamico rimarranno sempre questa separatezza e una diversa valenza dei valori.
Naturalmente un’apertura deve esserci anche da parte del mondo islamico, non essendo più sufficiente la sola condanna degli atti terroristici compiuti sia in danno dei cristiani che dei musulmani. Il dialogo, certamente non facile e contrassegnato da notevoli e storiche contrapposizioni, che spetta alla cultura occidentale laica e a quella musulmana più avveduta, dovrebbe quindi essere sviluppato attorno a temi che veramente interessino e includano il 'sentire' islamico e facciano emergere l’esigenza di archiviare la violenza stragista. È questo il 'contenuto' che oggi sembra mancare. La nostra cultura dovrebbe affrontare il dialogo con l’islam - anche in chiave antiterroristica sviluppando insieme il concetto per cui altri universi non sono inutili; il Sacro di qualunque Religione deve essere rispettato: il Corano come il Vangelo. Nelle nostre librerie è facile trovare il Libro sacro dell’islam, non il contrario. Mi ha perciò molto colpito un grande passo compiuto in Iran dalla Università delle Religioni e delle Confessioni, che si trova nella città santa sciita di Qom, la quale nell’ambito di uno studio su altre religioni, ha completato recentemente un progetto ardito e molto significativo, ossia la traduzione in lingua farsi dell’intero Catechismo cattolico. Il progetto è stato realizzato in accordo con la Nunziatura di Teheran. È fortemente auspicabile che questi passi continuino e si giunga a norme legislative che realizzino, anche in questa materia, la più ampia applicazione dei Diritti Umani. I passi reciproci debbono convergere sulla necessità della convivenza dei popoli pur appartenenti a sistemi giuridici e sociali diversi e a religioni diverse, escludendo la percezione che i valori professati da ciascuna delle due parti possano sembrare imposti all’altra come nuova forma di colonialismo culturale.
 
* Procuratore nazionale Antimafia Aggiunto
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