mercoledì 22 ottobre 2008
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«Il rischio principale per l'economia mondiale è che l'inasprimento delle condizioni creditizie per famiglie e imprese e il deterioramento del ciclo economico si rafforzino a vicenda in una spirale negativa». Sono parole del governatore di Bankitalia Mario Draghi, confortate - purtroppo - dalle previsioni di crescita del Pil italiano stilate dal Fondo monetario internazionale, che assegna al nostro Paese uno 0,1% per il 2008 e meno 0,2% per il 2009. In una parola, recessione, che l'Fmi stima durerà almeno fino al 2010, anche se il termine forse non è bastevole a descrivere lo stato di semipovertà che aggredisce un numero sempre crescente di famiglie: secondo l'Ocse, la forbice che separa i redditi dei cittadini italiani abbienti da quelli più svantaggiati si è ulteriormente allargata fino a raggiungere una soglia simile a quella degli Stati Uniti, dove - come è noto - nei bassifondi di una società tradizionalmente opulenta si nasconde una nazione-ombra di 36 milioni di poveri. Una prospettiva che in parte minaccia anche l'Europa. La crisi finanziaria originata dal collasso dei mutui subprime e successivamente dal crollo di banche, istituti di credito e assicurazioni è un'emergenza ineludibile, in America come nel Vecchio continente. Per fronteggiarla i governi nazionali (e soprattutto la Ue) hanno adottato misure drastiche ma certamente efficaci, soprattutto per garantire liquidità alle banche ed impedire per quanto possibile che la grande crisi di sfiducia finisca per strangolare l'economia reale. Altre misure (si parla con alterni accenti di neokeynesismo) si stanno profilando, in primis gli aiuti di Stato all'industria manifatturiera. Accanto all'emergenza economica vi è però un'altra emergenza non meno importante: quella climatica. In questi giorni l'Unione europea è lacerata da una disputa attorno al pacchetto-ambiente, originariamente varato nel marzo del 2007 e racchiudibile nella formula 20-20-20, ovvero riduzione entro il 2020 del 20% delle emissioni di anidride carbonica, incremento dell'efficienza energetica del 20%, aumento al 20% della quota di energia prodotta da fonti rinnovabili. Un pacchetto ambizioso, ancorché sottoscritto con una certa leggerezza dal ministro italiano dell'epoca, che se applicato alla lettera comporterebbe per il nostro Paese un costo di almeno 185 miliardi di euro in dieci anni (secondo stime incrociate della Confindustria e del governo), ovvero l'1,14% annuo del Pil. Cifre contestate dall'opposizione e in parte dalla Commissione europea. L'Italia - in queste ore sotto accusa per aver puntato i piedi in sede europea chiedendo che si distribuisca pro-capite il costo e non sia l'unica nazione a pagare da sola un quinto del pacchetto - obietta che l'aggravio per un Paese manifatturiero come il nostro in questa fase sarebbe insostenibile. Il nodo sta proprio qui: economia e clima sono due emergenze, entrambe cruciali per il nostro futuro, ma si ha come l'impressione che viaggino a velocità diverse. Che cioè la recessione sia la prima delle emergenze da affrontare, senza nulla togliere alla drammaticità della questione climatica e alle conseguenze nefaste che trascurarne l'importanza potrebbe avere per gli anni a venire. E' una scelta difficile, anche politicamente: frenare la deriva economica o salvare l'ambiente? Un compromesso molto probabilmente l'Europa finirà per trovarlo. Il meno costoso sotto tutti gli aspetti, si spera.
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