Quell'omicidio dell'intelligenza e dell'anima che è il razzismo
sabato 23 febbraio 2019

Caro direttore,
sono un’insegnante in pensione e intervengo sulla vicenda del bambino “usato” per un «esperimento sociale» in classe. Non so dire il dolore che ho provato nell’immaginare quel bambino messo alla gogna e gli altri suoi compagni, vittime anche loro di una sperimentazione violenta, che li avrà certo impauriti e disorientati. Se un maestro può disporre dei bambini come lo scienziato fa nel suo laboratorio con gli elementi che gli sono utili per le sue ricerche, tocchiamo l’orrore cui ci siamo fin troppo affrancati negli ultimi anni. L’indignazione è tanta e al punto che non me la sento di dar contro a quel maestro, forse in buonafede, nella sua incompetenza. Forse quel maestro ha introiettato dentro di sé, che se lo fanno tutti (o quasi), quell’affondo verso i più presi di mira, fra questi i bambini di colore, perché non lo può fare anche lui per scopi che ritiene nobili e d’avanguardia? Cosa ha pensato, colui che dovrebbe essere un educatore, quando ha esposto in vetrina, come fosse una “cosa”, un bambino indifeso al giudizio di altri bambini, che fuori scuola potranno fare altrettanto, perché se lo fa il maestro... magari è giusto così? Così può capitare che anche al parco, in cortile o per strada si possa dire di un bambino nero, “sei brutto, va via”... e magari quando si diventa ragazzi, quel compagno lo si può anche picchiare: se non ti rispetta il maestro, certo non ti rispettiamo noi. Pesa inoltre la violenza del “fuori” perpetrata da persone che al governo offrono esempi e inviano “messaggi”, che certamente avranno influito sul far didattica di quel maestro. E ora, poveri noi, poveri loro, poveri tutti dentro questa meschinità del vivere! Chi chiederà scusa a quel bambino e lui come farà a spiegarsi quel che gli è successo, i suoi compagni cosa pensano, e i loro genitori? Provo una grande vergogna per come siamo diventati e per l’ombra del razzismo che è ricomparsa e spesso si concretizza in violenza.
Andreina Corso, Venezia

Ho la sua stessa pena, cara maestra. E capisco l’urgente amarezza delle sue domande. Sono anni che, da cronista, assieme ai miei colleghi e a (non molti) altri giornalisti senza paraocchi, vedo, registro e denuncio il crescente clima xenofobo e l’allungarsi dell’ombra di un nuovo razzismo tracotante e noncurante, che ha la violenza parolaia e troppo spesso manesca del vecchio, la stessa forza oppressiva sul piano civile, sociale ed economico (un’oppressione che tanti purtroppo non vogliono più riconoscere), ma anche un’aggressività e un’incisività terribilmente accresciuta dai nuovi mezzi di comunicazione digitali. So anche che in quest’ultimo ambiente, come del resto in ogni altro, a cominciare da qualsiasi ambito educativo, coloro che si dicono e sono cattolici dovrebbero sentire un dovere di umanizzazione e una speciale chiamata alla fatica e alla gioia della fraternità. Per questo non riesco a far finta di nulla quando vedo che ci sono persone che si dichiarano religiose, cristiane e addirittura si atteggiano a paladini della cultura cattolica eppure parlano apertamente, agiscono e reagiscono da xenofobi e da razzisti. Queste cose fanno venire i brividi, e spingono a indignazione. Una spinta che dobbiamo saper governare nel nome della giusta misura e di regole eque ed eguali date al nostro vivere comune. Ma anche come un’occasione personale – cioè che riguarda proprio noi e non altri – a un di più di amore e di impegno. Perché le menzogne razziste non possono mettere radici. Non possono, e non devono, come hanno civilmente detto i millecinquecento scesi in piazza ieri a Melegnano per solidarietà con un ragazzo adottato e insultato e minacciato con la sua famiglia per la pelle nera che porta. E non si può neppure permettere che si radichi l’enorme bugia per cui una legge sarebbe “forte” quanto emargina, esclude e caccia. Una legge è forte, cioè è salda e giusta, quando crea ordine – un ordine buono, utile alla vita e alla sicurezza delle persone – quando è rispettosa di tutti e perciò in nessun modo discriminatoria.
Detto questo, penso come lei che il maestro di Foligno – che ha finalmente deciso di far arrivare scuse chiare e tonde al bimbo offeso e ai suoi genitori – abbia sbagliato gravemente, e tanto di più se davvero, da insegnante qual è, non si fosse reso conto di ciò che stava combinando (e meno male, come Eraldo Affinati ha annotato sulla nostra prima pagina del 22 febbraio, che i suoi alunni se ne sono resi conto per lui! – leggi qui ). Ma non riesco a credere che quel maestro sia stato, come lei teme, l’ennesimo pupazzo dei ventriloqui politici che contribuiscono potentemente a generare l’onda di ostilità contro l’«altro» che purtroppo sta impazzando. Spero di non sbagliarmi. Un errore grave è un errore, e gli errori si riparano. Un rimbecillimento cattivo e di massa è una tragedia, e le tragedie sfigurano in modo indelebile la nostra umanità.
Non voglio però congedarmi da lei, gentile amica, senza consegnarle un grazie particolarmente sentito per un’espressione che usa a conclusione della sua lettera. «Provo una grande vergogna... ». Grazie, cento volte grazie. Il primo passo per uscire dal cupo cono d’ombra del nuovo razzismo tracotante e noncurante è proprio il provare vergogna, il provarne vergogna. Anche per altri, anche per chi non ne è capace. O meglio non ne è ancora capace. “Un giorno verrà”, direbbe fra’ Cristoforo... Sana vergogna, dunque. Vergogna per le parole che non vanno dette. Vergogna per gli slogan che non vanno concepiti e ancor meno gridati. Vergogna per i gesti che non si possono proprio fare. Vergogna per i pensieri che non si devono armare. Vergogna, pura e semplice. Vaccino a ogni arroganza e a quell’omicidio dell’intelligenza e dell’anima che è la pulsione razzista. Vergogna: un’espressione che ho dovuto usare molte volte, in questi anni, per dire – da italiano e da cristiano – un dolore e dare l’allarme. Da qualcuno questa chiarezza, e franchezza, mi è stata rinfacciata come una colpa. Credo fermamente che l’unica colpa sarebbe quella di accomodarsi in un dibattito pubblico «senza vergogna» (cito, e non per caso, il titolo di un mio editoriale dell’agosto 2018 – leggi qui ). Sarebbe accettare supinamente discriminazioni «senza vergogna». Adeguarsi a frasari «senza vergogna». E trattare «senza vergogna» altri esseri umani diversi per etnia, e accomunati dalla loro condizione di povertà, come uomini e donne di “serie B”. Cara maestra Andreina, abbiamo ancora e sempre bisogno di maestre come lei.


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