Destini siriani. Interessi altrui

I raid aerei con cui Tel Aviv ha imposto alle truppe di Damasco il ritiro dalla città drusa di Sweida e bombardato il ministero della Difesa fanno da cupo presagio al futuro della Siria
July 17, 2025
Destini siriani. Interessi altrui
Reuters | Civili drusi si spostano nelle aree più isolate tra Deraa e Sweida per sfuggire alle violenze di questi giorni contro la minoranza siriana
I raid aerei con cui l’aviazione di Israele prima ha imposto alle truppe siriane il ritiro dalla città a maggioranza drusa di Sweida e poi ha bombardato il ministero siriano della Difesa nel cuore della capitale Damasco, dimostrando di poter colpire liberamente in qualunque punto del Paese, non parlano tanto di Israele ma fanno da cupo presagio al futuro della Siria. Per almeno due ragioni.
La prima ha a che fare con la sua storia contemporanea. Nei lunghi e drammatici anni della guerra civile, si era diffusa l’illusione che la rimozione del dittatore Bashar al-Assad avrebbe portato, quasi di per sé, a una specie di riconciliazione nazionale in nome della riconquistata libertà. Assad è scappato a Mosca ma è successo il contrario: sparatorie tra milizie curde e sunnite, bombe islamiste nelle chiese cristiane, stragi di alawiti da parte dei sunniti, una vera guerra tra i reparti sunniti fedeli al presidente al-Jolani/al-Sharaa e i gruppi di autodifesa della comunità drusa, a loro volta aiutati dagli alawiti. Tutte le vecchie faglie etnico-religiose si sono spalancate e rischiano di inghiottire il Paese, eccitate anche da un progetto di nuova Costituzione che, a credere alle voci che arrivano da Damasco, mostra più di un tratto islamista. Che corrisponde alla natura e all’origine dei nuovi governanti, ex dirigenti o capi militari del gruppo qaedista Hayat Tahrir al-Sham (Hts), ma ovviamente inquieta le numerose, corpose e influenti minoranze siriane.
E poi c’è la situazione internazionale. Nel 2011 Recep Tayyip Erdogan diceva di voler cacciare Assad per andare a pregare nella moschea degli Omayyadi di Aleppo. Nel dicembre scorso, lanciando all’offensiva gli uomini di Hts che aveva a lungo finanziato e armato, il presidente ha mostrato di non aver rinunciato al vecchio sogno. Anche lui, però, ha sbagliato molti conti. Fino a quel punto, infatti, aveva più o meno retto un equilibrio perverso ma utile per cui la Russia teneva a bada Assad, permetteva a Israele di attaccare le basi iraniane in Siria, trattava con la Turchia e faceva, più o meno, da elemento d’equilibrio. Non è un caso se a parlare con i capi delle comunità druse ora ribelli fossero, negli anni scorsi, più i militari russi che i funzionari assadiani.
Erdogan ha creduto che al-Jolani e i suoi potessero prendere in fretta il controllo del Paese, sottovalutando le difficoltà interne di cui sopra. In più, ha male interpretato le mosse di Israele, che del ribaltone siriano ha approfittato per allargare il cerchio delle proprie operazioni e rendere ancora più ambiziosa la propria strategia. Ora Erdogan è paralizzato: non vuole e non può fare la guerra a Israele ma non sa come difendere il “suo” al-Jolani, di bomba in bomba sempre più avviato al ruolo di sindaco di Damasco più che di presidente della Siria. Con il Nord controllato dal padre-padrone Turchia, il Golan a Sud dominato da Israele attraverso i drusi, l’Est ricco di petrolio sotto la tutela degli americani e dei loro protetti curdi.
Ed è proprio questo che giustifica i pronostici pessimistici sul futuro del Paese. Oggi tutti i Paesi occidentali corrono a stringere la mano ad al-Jolani e si affrettano a eliminare le sanzioni con cui è stato affamato per anni il popolo siriano (ma non gli Assad), senza però muovere un dito per difendere la stabilità e l’integrità territoriale della Siria. È un paradosso solo in apparenza. Alle potenze regionali va benissimo poter rosicchiare parte del territorio siriano per soddisfare le loro più o meno credibili esigenze di sicurezza. Alle altre, quelle più lontane, non va male che in Medio Oriente venga realizzata l’ennesima ristrutturazione delle aree di influenza, se non anche dei confini, che in questo caso prevede la cacciata della Russia, la mortificazione delle ambizioni dell’Iran e la riduzione della stessa Siria a un piccolo Paese disarmato e fragile, avviato al ruolo di semplice piattaforma di interessi altrui. Una specie di secondo Libano, insomma, costretto a sperare nella benevolenza dei più forti. Con una certa libertà di azione, però, per Al Jolani o chi per esso. A difendere i drusi è intervenuto Israele in base a precisi interessi strategici. A difendere gli alawiti non è arrivato nessuno, e anche i venti cristiani uccisi in chiesa hanno destato un’attenzione insufficiente.
«Il mondo non distolga lo sguardo dalla Siria», ha detto papa Leone XIV pochi giorni fa. Ma la sensazione è che dei siriani e del loro destino importi poco. E che lo sguardo della comunità internazionale sia distolto, ma non per caso.

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