Mai impaurire i creditori la sola regola dei mercati
giovedì 30 agosto 2018

Con il rientro dalle vacanze gli italiani torneranno in fretta ad occuparsi dei veri problemi irrisolti di questo nostro Paese: la disoccupazione giovanile, la vergognosa evasione fiscale, l’immenso debito pubblico. Presto dunque sposteremo lo sguardo dal mare ai computer delle sale operative delle banche d’affari. La fissazione per i fantomatici 'mercati', che altro non sono che trentenni incollati al monitor e ai grafici, nasce dal semplice fatto che chi non ha soldi deve chiederli in prestito. E gli Stati ormai sono tutti in bolletta, a eccezione – forse – della Cina che se ne può infischiare perché non è una vera democrazia economica come le altre. Tutto il mondo è quindi costruito a debito, chi lo offre e chi lo prende, persino Donald Trump, nonostante i diktat sui tassi e le apparenze, deve sperare che la Federal Reserve continui a stampare denaro e a fare il suo mestiere.

Da questa semplice constatazione nasce un adagio che ogni esecutivo, soprattutto se ha il terzo debito al mondo e risiede a Roma, deve tenere sempre presente: mai sfidare i mercati, non aspettano altro. Quando poi si vive in un contesto come quello dell’Eurozona, dove il banco può saltare senza un intervento della Banca centrale europea, sarebbe meglio usare grande prudenza. Gli investitori hanno memoria da elefante e gambe da lepri. Spesso, se scappano, non ritornano. Fin quando la Bce non sarà prestatrice di ultima istanza, come la Federal Reserve Usa, bisognerà perciò rassegnarsi a una realtà: l’Italia emette debito in una moneta che non controlla più e quel debito deve farselo comprare, non potendolo stampare a piacimento. Pensare di tornare alla lira per riacquisire la sovranità perduta ha un suo fascino e per certi versi anche una logica, prigionieri come siamo del Fiscal Compact e di altre gabbie contabili, ma sarebbe folle pensare di farlo unilateralmente, magari approfittando dell’ultima crisi sull’immigrazione esplosa con l’Unione Europea e Bruxelles. Si ha l’impressione che qualcuno però all’interno del governo Conte pensi a creare un incidente di percorso proprio per scatenare a tavolino una crisi di rigetto verso la moneta unica e ciò che rappresenta. L’esito dell’esperimento è altamente incerto, probabilmente sconosciuto agli stessi suoi sostenitori. In questo quadro di grande incertezza coloro che hanno soldi, memoria elefantina e arti veloci si chiedono cosa fare, mentre il 'Wall Street Journal' presenta l’Italia come il nuovo malato d’Europa e tra maggio e giugno 72 miliardi di euro in Btp e corporate bond, le obbligazioni delle imprese, sono state liquidati, come ci ha rivelato il 'Financial Times'.

Proprio quando non si è padroni in casa propria e si dipende per 400 miliardi di euro all’anno da finanziatori esterni, non si devono sfidare i mercati, anche se essi ingiustificatamente, visti i solidi fondamentali dell’economia italiana nonostante le parole tempestose di alcuni governanti, hanno riportato lo spread vicino a quota 300 rispetto alla Germania e a un livello mai visto dal 2011 nei confronti della Spagna. O si cambia casa o si cambiano le regole del condominio. Le due cose insieme non si possono fare. Con un debito di oltre 2.300 miliardi di euro, una manovra di bilancio tutta da inventare che parte da 25 miliardi di euro, ma 'deve' (per promesse elettorali e 'contratto di governo') coprire numerose e costosissime voci di spesa (dalla revisione della legge Fornero alle prime prove di reddito di cittadinanza per finire con l’avvio della flat tax) occorrerà, comunque, continuare a convincere chi ti presta dall’estero un euro su tre, che ancora vale la pena di farlo. Fin quando le regole sono queste e si è appesi ai creditori, al pareggio di bilancio, alla Commissione e alle agenzie di rating, bisogna saper stare in partita. Ci sarà poi tempo, già dalle prossime elezioni europee, per avviare un vero dibattito riformista sulle storture dell’architettura comunitaria, ma farlo anticipare alle piazze finanziarie è un assist che non si meritano. I fatti sono noti a tutti. Sono imminenti, come su queste pagine è stato già puntualmente ricordato, alcuni giudizi sul debito pubblico italiano che potrebbero – non è detto che accada intendiamoci, ma potrebbero davvero – rendere il cammino verso l’approvazione della prima legge di bilancio gialloverde molto accidentato. Si inizierà il 31 agosto con Fitch. L’agenzia che attualmente assegna una tripla B all’Italia con outlook stabile; lo scorso 21 maggio ha scritto che la piena applicazione delle ricette di politica economica del programma di governo rischia di far salire il deficit. Non ci voleva Fitch per fare questo calcolo ma sembra un avviso di chiamata. Moody’s, che nel 2010 diede il fuoco alle polveri della speculazione contro l’Italia dopo che anche Deutsche Bank aveva alleggerito di qualche miliardo la sua esposizione in Btp, dal 25 maggio scorso ha invece messo sotto osservazione il rating dell’Italia in vista di un possibile declassamento, ma darà un po’ di tempo al governo ed emetterà il suo giudizio a fine ottobre quando, si spera, ci sarà più chiarezza e sarà stata approvata da Palazzo Chigi la legge di Bilancio.

Usando la pedanteria necessaria dei numeri, va ricordato che attualmente il rating è a livello Baa2 ma potrebbe finire a Baa3. A un passo dal perdere la classificazione «investment grade», che le agenzie di rating assegnano agli emittenti più affidabili. Sotto Baa3 o la tripla B si finisce nella terra oscura dei titoli speculativi: detto brutalmente, il gergo di mercato li definisce 'spazzatura'. Inutile spiegare cosa significhi questo per un Paese che seppur molto indebitato custodisce la bellezza di almeno 4.000 miliardi di euro di ricchezza finanziaria privata e si permette, da calcoli del 'Sole 24 Ore', di avere all’estero, 220 miliardi di euro dichiarati. Fare confusione con dichiarazioni contrastanti, minacciare lo sfondamento del pur inutile tetto del 3% di deficit-Pil, annunciare di volersene infischiare dei mercati finanziari, quando da questi si dipende, è dannoso e suicida. L’Italia – e, dunque, chi la governa – deve evitare di fornire alibi a chi la vorrebbe in un angolo, come nel 1992 e nel 2011. Se le quattro maggiori agenzie di rating classificano come «non investment grade» il nostro debito pubblico, la Bce non può più acquistarlo nell’ambito del Quantitative easing e anche gli altri investitori si chiederanno perché farlo, persino in Cina, dove il ministro dell’Economia Giovanni Tria si è prontamente recato in cerca di sostenitori. Un declassamento dell’indebitamento italiano e con esso delle banche tricolori e del 'tesoro del Tesoro', la Cassa Depositi e Prestiti, avrebbe effetti devastanti su tutta l’amministrazione e farebbe salire l’onere della spesa per interessi, che oggi si aggira sui 70 miliardi annui, giusto quelli che servirebbero per attuare il Contratto di governo gialloverde.

Ecco perché il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Giancarlo Giorgetti, ha messo tutti in guardia, parlando di possibili attacchi speculativi. Il rischio c’è e può essere alimentato dallo stesso debitore con quelle che sui mercati si chiamano profezie autoavveranti. Nel falò delle illusioni dell’autonomia dai nostri creditori ci finiremmo tutti.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: