sabato 12 luglio 2014
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La nazionale albiceleste ha strappato la quinta finale mondiale ai rigori, l’Argentina rischia il settimo default della sua storia - record amaro e potenzialmente devastante - per un eccesso di rigore giuridico che sceglie di premiare la finanza rapace e senza scrupolo alcuno. Destini calcistici e sorti politiche intrecciano spesso i loro percorsi, soprattutto in Sudamerica, ma potrebbero in questi giorni imboccare direzioni diametralmente opposte: verso il trionfo, domani sera, Messi e compagni; dritto nel baratro, in pochi mesi, il Paese intero, per quello che la Casa Rosada (e non solo) definisce un autentico ricatto dei "fondi avvoltoio".L’Argentina del pallone ha iniziato la scalata al Maracanã il 15 giugno, superando di misura la Bosnia. Due giorni dopo la Corte Suprema degli Stati Uniti si esprimeva sul contenzioso tra Baires ed hedge funds. Il giudice Thomas Griesa, applicando una clausola contrattuale chiamata "pari passu", ha imposto al Paese sudamericano la "parità di trattamento", appunto, tra fondi speculativi e creditori che avevano accettato invece la ristrutturazione del debito dopo il default del 2001. Sono la stragrande maggioranza, questi ultimi, il 93% degli obbligazionisti, fra loro anche 400mila italiani. Nel caveau della Bank of New York Mellon erano già stati depositati i 539 milioni di dollari necessari per saldare alla scadenza i nuovi bond con valore ridotto. Buenos Aires non ha potuto però onorare il suo impegno: il giudice Griesa ha definito infatti "illegale" il pagamento se contemporaneamente non vengono risarciti e per intero pure i fondi renitenti al concambio. L’Argentina potrebbe anche rispettare la sentenza staccando un assegno aggiuntivo da 1,6 miliardi di dollari, le sue riserve, più di 35 miliardi, lo consentono. Tuttavia, secondo il ministro dell’economia Axel Kicillof, se altri creditori perseguissero a questo punto la strada che porta dritto in tribunale, il conto lieviterebbe fino a 15 miliardi di dollari rendendo il pegno davvero insostenibile.La solidarietà espressa dai Paesi latinoamericani insieme a Francia, Stati Uniti e Fondo Monetario Internazionale non è servita finora a scongiurare un’escalation in grado di condurre Buenos Aires, nonostante le rassicurazioni del presidente Cristina Kirchner, all’insolvenza tecnica. Proprio ieri, nella tarda sera italiana, era in programma un nuovo incontro a New York tra il governo argentino e Daniel Pollack, il negoziatore del giudice Griesa. Indiscrezioni filtrate nelle ultime ore prefigurano un accordo con gli hedge funds per scongiurare la crisi.La decisione della Corte Suprema verga in ogni caso un clamoroso precedente, scoprendo un vulnus nell’architettura giuridico-finanziaria internazionale: quale Stato accetterebbe d’ora in poi di ristrutturare con fatica il proprio debito se un giudice di un altro Paese si mostra pronto a sostenere le ragioni di una risicata minoranza che, su quella sorta di redenzione costata lacrime e sangue, intenzionalmente ci specula e viene pure premiata? In un decennio l’Argentina, pur fra mille difficoltà e alcuni errori – l’utilizzo disinvolto della statistica e sbandamenti autarchici –, è riuscita a rimettersi in piedi. Garantendo ai vecchi detentori il 30% dei titoli originari e agganciando una percentuale aggiuntiva alla crescita economica: più il Paese e il suo popolo si sarebbero rialzati, meglio avrebbero onorato le promesse. Così è stato, prima che il frutto del risanamento venisse congelato da un giudice in una banca americana. A rimetterci, in questo momento, sono purtroppo i creditori che a Buenos Aires volenti o nolenti hanno accordato fiducia. Non certo Elliot Capital Management, il fondo hedge con sede nel paradiso fiscale delle Isole Cayman che ha rastrellato sei anni fa 48,7 milioni di Tango bond – dopo il default argentino, quindi – e ora ne pretende 832 interessi compresi, pregustando un "onesto" guadagno del 1.600%.Ma è proprio questa, in fondo, la sua "ragione sociale": volare intenzionalmente sopra Paesi schiacciati dai loro debiti, trovare la preda giusta e piantare poi gli artigli su titoli a prezzi stracciati con l’intento di consegnarli in Tribunali sotto giurisdizione straniera. E ottenere così un bel gruzzolo senza rinegoziazione e soprattutto senza sconti. Un saccheggio.Quando la finanza – per definizione uno strumento al servizio della crescita – diventa mera speculazione, si assiste impotenti a un meccanismo di dissociazione così profondo dall’economia che anche il principio per cui i debiti devono essere elargiti sulla base della capacità del debitore di ripagare viene calpestato. Non ci sono argini che tutelino gli uomini e il loro lavoro, i Paesi e le loro economie, che salvaguardino cioè il bene comune. Se un pugno di hedge funds riesce a stringere alle corde uno Stato sovrano, l’interesse finanziario di una sparuta ma potentissima minoranza può schiantare quello pubblico. Una deriva nichilista nell’alveo di quella che il filosofo Emanuele Severino definirebbe la tendenza fondamentale del nostro tempo, tendenza in base alla quale tutti gli scopi dell’uomo diventano i mezzi di un unico scopo che tutti li ingloba: l’indefinito potenziamento della Tecnica. E se la Tecnica indossa diverse maschere, quella della finanza speculativa è una fra le più inquietanti. Il caso argentino testimonia in qualche modo come questo fenomeno abbia raggiunto la sua forma più radicale, plasmando un sistema economico che, ha ricordato domenica scorsa Papa Francesco all’Angelus, sfrutta l’uomo imponendogli un "giogo insopportabile al quale solo pochi privilegiati possono sottrarsi". A comandare è purtroppo chi abusa del potere dei soldi. Domani l’Albiceleste si misurerà calcisticamente sul rettangolo verde, ma il vero avversario dei prossimi mesi, per l’Argentina, sembra purtroppo ben più forte di una pur grande nazionale europea. A meno che non cambino davvero le regole del grande gioco tecno-finanziario.
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