venerdì 13 maggio 2011
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Fragorosi, allora come oggi. Un giorno, quel 13 maggio 1981, destinato a restare per sempre. A segnare il confine di una sola, incontrovertibile, certezza: il piombo che trapassò il Vicario di Cristo, e il sangue, un lago, versato da Giovanni Paolo II. L’inimmaginabile che cambiò tutto, senza cambiare niente.A cambiare, per prima cosa, fu la percezione di una figura che fino a quel momento aveva già mille volte stupìto, proprio a iniziare da quel suo farsi vicino alla gente come mai prima nessun suo predecessore aveva fatto. E quegli spari, in qualche modo, erano comunque il prezzo pagato per quell’offrirsi generoso all’abbraccio di tutti.Già Paolo VI, a Manila, era stato raggiunto dalla baionetta di un fanatico, ma tra quella e il piombo di piazza San Pietro c’era tutta la distanza tra il lacerante travaglio interno a una Chiesa in transizione, e una Chiesa ormai proposta al mondo come istituzione non solo 'aperta a' tutti, ma fisicamente 'di' tutti.Quel Papa colpito a morte e sopravvissuto per miracolo divenne, in questo modo, l’icona vivente di quell’usque ad sanguinis effusionem tante volte, fino ad allora, ascoltato, ma dai più mai realmente percepito se non nei racconti della vita dei martiri. Così, quel 13 maggio a cambiare fu la consapevolezza di una realtà – il martirio – che tornava a farsi vicino a noi, a tutti, proprio nella figura stessa del Pontefice. Chiamato brutalmente a farsi carico in prima persona di una croce che forse neppure lui si sarebbe aspettato, e che avrebbe continuato a portare, sempre più pesante, negli anni a venire attraverso le mille tribolazioni che ne avrebbero piegato il fisico, ma mai lo spirito.S’è parlato, a ragione, di una cattedra della sofferenza dalla quale Papa Wojtyla ci ha donato alcune delle più intense pagine del suo magistero. Di una vera e propria Enciclica del dolore mai scritta ma scolpita giorno dopo giorno sul suo fisico indomabile, e capace oggi come ieri, e per sempre, di parlarci delle radici della fede, di un Credo non recitato a memoria dopo un’omelia ma incarnato nel quotidiano di una vita, a respirare attraverso gli stessi polmoni che, oltre che ossigeno al cuore, portano linfa allo spirito.Quel 13 maggio, davvero, cambiò tutto. E lo cambiò, appunto, per il suo non cambiare nulla. O meglio, in Papa Wojtyla fu il non voler cambiare nulla a dare un senso al cambiamento. Non è né un paradosso, né un gioco di parole. Nel non voler modificare alcuna delle abitudini ormai entrate nella 'normalità' del suo pontificato, nel non accettare di fare alcun passo indietro, neppure il più piccolo, rispetto a quello che aveva iniziato, nello scegliere di restare Pastore in mezzo al gregge, Giovanni Paolo II infatti dava senso, spessore e profezia a quel cambiamento.Aggiungeva pagine inedite e irripetibili non solo, o non tanto, a un modo di essere Papa ma a un modo di essere Chiesa, di credere al Figlio morto in croce per la salvezza dell’uomo, assumendone la stessa croce e, così, indicando quella via quotidiana alla santità che è sempre stata il centro del suo insegnamento.Non c’era, in questo, nessuna ansia di martirio, ma solo il consapevole piegarsi a quella Grazia divina capace di intervenire continuamente nella storia secondo un suo disegno che, pur ignoto all’uomo, è comunque sempre finalizzato al suo bene. Accettandola fino in fondo. Fino all’estremo. Usque ad sanguinis effusionem.
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