sabato 22 marzo 2014
Etiopia, Medio Oriente o California. I rischi della siccità
di Federica Zoja
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Risorse idriche e sicurezza nazionale sono due fattori sempre più intrecciati tra loro, non solo per i Paesi piagati direttamente dalla siccità, ma anche per quelli, distanti migliaia di chilometri, che sono legati tra loro da vincoli economici e politici. Per questo non sorprende l’allarme lanciato dagli analisti statunitensi a seguito della diffusione di uno studio dell’Università della California, a metà gennaio. Basato su dati forniti dai satelliti dell’Agenzia nazionale americana per lo spazio (Nasa), il rapporto dà per imminente il prosciugamento delle falde acquifere californiane e mette in guardia dall’inaridimento in atto in Nord Africa, Medio Oriente e Asia. Con lo stesso grado di preoccupazione, insomma, si guarda all’acqua di casa come a quella dei vicini, potenzialmente pericolosi se assetati. Ecco gli scenari mondiali più caldi.
Il bacino del Nilo è al primo posto. Il controverso progetto della grande diga «del Rinascimento», e destinata a sbarrare il corso del fiume Nilo in territorio etiopico, si perde nel pozzo senza fondo di incontri al vertice, studi di fattibilità, e lunghi negoziati. La vicenda, nonostante interessi ben sei Paesi africani, non è più di tanto nota al grande pubblico, imprigionato in un diffuso luogo comune acquisito sui banchi di scuola: Nilo uguale Paese degli antichi Faraoni, cioè Egitto, Paese da sempre debitore, per il proprio approvvigionamento idrico, e quindi per la sopravvivenza, dal gigante d’acqua fluviale. Eppure il fiume più lungo del mondo (in perenne competizione con il Rio delle Amazzoni) ha origine per l’85% in un’altra nazione, l’Etiopia. Il Nilo Azzurro, l’affluente principale, nasce nel Lago etiopico Tana, attraversa il Sudan e si congiunge con il più piccolo Nilo Bianco a Khartum. Il Bianco, meno imponente ma più lungo, nasce in Ruanda per poi scorrere attraverso Tanzania, Uganda, Sud Sudan. Ora l’Etiopia, fra i Paesi africani più poveri, ha deciso di uscire dalla miseria mettendo a profitto ciò che la natura le ha fornito con una ciclopica opera ingegneristica: a regime la diga sul Nilo sarà alta 170 metri e larga 1.800; la produzione di energia idroelettrica sarà pari a 6mila megawatt. La Grande diga etiopica del Rinascimento sarà la più grande del continente e fra le prime dieci al mondo.
Dall’annuncio al mondo formulato da Addis Abeba nel 2011 molte cose sono però cambiate. Innanzitutto, la deviazione del corso del Nilo Blu alla fine del maggio scorso, che secondo Il Cairo e Khartum è avvenuta in aperta violazione degli accordi firmati dai Paesi del bacino del Nilo in piena era coloniale. Essi riconoscevano all’Egitto la legittimità dello sfruttamento del 70% delle acque a valle. «Ma quegli accordi, firmati da ultimo nel 1959, violano i diritti di almeno cinque Paesi a monte», è la risposta delle autorità etiopiche, che si difendono sostenendo che la diga fornirà energia elettrica non solo all’Etiopia, ma anche ai vicini. Il progetto vale 5-6 miliardi di dollari. Per l’Etiopia e i suoi 90 milioni di abitanti non ci sono alternative né idriche né elettriche, anche se Addis Abeba si è resa disponibile prima a formare poi ad ascoltare un Comitato tripartito per il Bacino del Nilo (Egitto, Etiopia, Sudan), al fine di valutare l’impatto della Diga sul territorio. Ma il primo rapporto degli esperti non ha soddisfatto Il Cairo, che chiede il coinvolgimento di tecnici internazionali e la sospensione dei lavori. L’Egitto in questa vicenda è sempre più isolato. Khartum e Addis Abeba hanno siglato contratti soddisfacenti per entrambe le parti in termini di compravendita di idroelettricità. Il destituito presidente egiziano Mohammed Morsi era arrivato a minacciare la guerra contro l’Etiopia, mettendo sullo stesso piano «ogni singola goccia del fiume Nilo» e «il sangue degli egiziani». Posizioni non lontane dal predecessore Hosni Mubarak, che tentò di destabilizzare il Paese contendente appoggiando le fazioni ribelli. Ora tocca al generale Abdel Fattah al-Sissi scegliere nuovi strumenti di lotta.
La Mezzaluna mediorientale è il secondo fronte caldo dell’acqua. Qui l’acqua è in cima alle priorità di svariate nazioni: in Turchia, a metà dello scorso dicembre, le autorità hanno inaugurato 36 dighe, per un investimento complessivo di 1,6 miliardi di dollari. Si tratta, in massima parte, di progetti finalizzati a incidere sull’agricoltura, ma non solo. Il Sud-Est del Paese è assetato di acqua potabile: una piattaforma di oltre cento progetti prevede riqualificazione di fiumi, messa a punto di stazioni meteo, monitoraggio delle acque marittime. Dal marzo del 2014, poi, un acquedotto fornirà acqua ai "fratelli" ciprioti turchi: un accordo storico, che suggella la parentela fra Ankara e Nicosia. Non sono invece in vista intese sul fronte dello sfruttamento del fiume Eufrate, di cui sono "azionisti", appunto, Turchia, Siria, Iran e Iraq. Ankara ne drena sempre più le fonti e il corso principale, con un’impennata dal 2007 in poi a causa della concomitante siccità. Pozzi e dighe turchi incidono sulla falda acquifera dell’Eufrate, in via di prosciugamento. Per questo, a monte, nel Golfo persico, il fiume sfocia con una portata d’acqua di un abbondante 30% in meno rispetto a un decennio fa. Per tirare le somme, dal 2003 al 2010, sono andati persi 144 chilometri cubi di acqua fra Turchia, Siria, Iran e Iraq. Così, fra gli strateghi di Washington, più di uno mette in relazione lo scoppio del conflitto siriano con un ulteriore periodo di inedita siccità.
La Giordania, finora risparmiata dalla "Primavera araba", teme il precipitare della situazione se nel Paese dovesse mancare l’acqua: negli ultimi mesi, a seguito dell’arrivo di centinaia di migliaia di profughi siriani, infatti, acqua ed energia elettrica sono diventate insufficienti. Negli Emirati arabi uniti, nel corso di una conferenza internazionale sull’acqua, il principe ereditario Mohammed bin Zayed al-Nahyan ha dichiarato: «Per noi al momento l’acqua è più importante del petrolio» per mantenere il medesimo livello di ricchezza e margine di crescita. E anche a Teheran, il nuovo presidente Hassan Rouhani, preoccupato per la capitale a secco, ha incluso l’oro blu nell’agenda della sicurezza nazionale. Nel timore che la siccità possa diventare la miccia di una rivolta sociale. Infine, proprio l’acqua rischia di far arenare i nuovi negoziati israelo-palestinesi: nei piani di John Kerry, segretario di Stato americano fedele al principio «terra in cambio di pace», ai palestinesi di Abu Mazen si potrebbe offrire il deserto del Neghev. Le prime reazioni di Ramallah non sono incoraggianti.
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