giovedì 26 agosto 2010
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Il mio amico Agostino. La catechesi di ieri di Benedetto XVI potrebbe intitolarsi così. Come un uomo può parlare di un amico grande, che incontra da ragazzo e gli resta per sempre accanto, così il Papa ha parlato di Agostino. Che è Agostino di Ippona, ed è morto quasi milleseicento anni fa. Come può un uomo di un tempo così perdutamente remoto essere compagno, interlocutore silenzioso e fedele, di un altro in un evo vertiginosamente distante? È l’ostacolo, la barriera opaca del tempo, che quasi inconsciamente si frappone fra noi e i santi che pure magari veneriamo. Francesco, Bernardo, Teresa e Caterina: uomini e donne straordinari, ma la massa rappresa del tempo che ci separa li fa sembrare spesso irrimediabilmente lontani; e allora quelle figure si irrigidiscono in devoti stereotipi, e la loro umanità sembra incapace di toccare la nostra.  Eppure, dice il Papa, Agostino lui l’ha conosciuto da vicino. È diventato “un compagno di viaggio”. Come indicandoci una strada capace di attraversare i millenni; come se fosse possibile aggirare la signoria del tempo, che sbiadisce e cancella la memoria.E come lo ha conosciuto, il Papa, Agostino? Con lo studio e con la preghiera, dice. Nel silenzio, come quello in cui ad Agostino e sua madre Monica, affacciati a una finestra sul mare di Ostia, sembrò di toccare il cuore di Dio («Le creature – dice il Papa – debbono tacere, se deve subentrare il silenzio in cui Dio può parlare»).E a questo punto Benedetto sembra lasciarsi andare alla passione con cui un adolescente potrebbe dirci di un compagno molto caro, suscitando il desiderio di conoscere anche noi quell’amico singolare. Dunque Agostino «non è mai vissuto con superficialità: la sete, la ricerca inquieta e costante della Verità» è il marchio della sua storia. Prestigio, carriera, possesso delle cose lo hanno sedotto e illuso, per qualche tempo. Ma lui «non si è mai fermato, non si è mai accontentato». ( E sembra di vedere in filigrana nelle parole l’amicizia fra il santo e il giovane Ratzinger, e poi il seminarista, e il professore: la tensione a cercare, come il "vir desideriorum" del libro di Daniele. Colui che, ha scritto Benedetto nel Gesù di Nazareth, «non si accontenta della realtà esistente, e non soffoca l’inquietudine del cuore». E in un tempo che afferma, come unico vero dogma, che non esiste alcuna Verità, ma tante, o nessuna, e che è meglio sfruttare i propri giorni senza perder tempo a cercare ciò che non c’è, l’amico segreto del Papa si staglia alto all’orizzonte come un gigante fra i nani, dalla sua stessa domanda reso grande, e colmato. Ma, dov’è poi quella Verità che noi poveri cristiani a volte immaginiamo irraggiungibile, troppo alta nei cieli, o distratta, lo sguardo assente sulle nostre strade e città e case? Agostino ha scoperto, dice il Papa, che quel Dio che cercava con tutte le sue forze «era più intimo a sé di se stesso». Non in un cielo troppo azzurro e remoto, ma dentro, nel profondo di ogni uomo: "In interiore homine habitat Veritas".E i teologi e i dotti lo conoscono bene quel passo delle «Confessioni», ma noi poveri cristiani siamo grati a un Papa che ci ricorda questa parola. Raccontando del suo amico Agostino – morto ad Ippona, nell’anno 430. Eppure vivo. Eppure uomo come noi, distratti o inquieti, o in fondo paurosi che quella Verità che affermiamo non esistere sia lei, invece a trovare noi, e a sedurci. Il mio amico Agostino, testimonia il Papa. Perché, come scriveva negli anni Settanta Ratzinger, «la fede cristiana non la si può descrivere astrattamente: la si può solo documentare riferendosi a uomini che l’hanno vissuta fino nelle ultime conseguenze». Teresa, Ignazio, Francesco e gli altri: «Come si vede in loro – scriveva il futuro Papa – la fede è in fondo una determinata passione, o, più giustamente: un amore».
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