Continuità rivoluzionaria
martedì 3 luglio 2018

Tutto si può dire di Andrés Manuel López Obrador – che, dopo la trionfale elezione popolare di domenica scorsa, sarà dal 1° dicembre il nuovo Presidente costituzionale degli Stati Uniti del Messico – fuorché che egli rappresenti qualcosa di nuovo. La storia messicana dice il contrario. Quella posizione politica che i media internazionali qualificano oggi come "populismo di sinistra" ha radici profonde nella storia messicana. Che risalgono forse addirittura alla Reforma voluta da Benito Juárez alla metà del XIX secolo e poi, con maggiore sicurezza, alla cruenta Rivoluzione del decennio 1910-20.

Quel populismo di sinistra fu messo per iscritto nella Costituzione del 1917 (la prima, fra l’altro, a proclamare i diritti sociali in materia di educazione, ripartizione delle terre, diritto del lavoro e controllo statale sulle risorse naturali) e divenne poi la base ideologica del partito che, dal 1929, raccolse l’eredità della Rivoluzione e che nel 1940 assunse l’ossimorica denominazione di Partito Rivoluzionario Istituzionale. Un modello che combinava autoritarismo, terzomondismo e politiche sociali di taglio per lo più clientelare e che ha avuto grande successo, immunizzando il Messico dalla malattia infantile latinoamericana del golpismo militare durante tutto il ventesimo secolo, e che da varie parti del Sud del mondo si è tentato di imitare. Con grande acume Mario Vargas Llosa lo definì «dittatura perfetta».
In effetti López Obrador (Amlo per i media messicani) è un prodotto del Pri populista, nel quale si è formato e dal quale è uscito alla fine degli anni Ottanta, al momento della svolta neo-liberista voluta da Miguel de la Madrid e da Carlos Salinas de Gortari (entrambi presidenti del Pri) dopo la grande crisi economica che del populismo Priista aveva travolto le basi. López Obrador è stato per quasi tre decenni membro del Partito della Rivoluzione Democratica, l’ala sinistra del Pri, che ha rappresentato fra l’altro come capo del governo del Distretto Federale dal 2000 al 2005 e poi come candidato alla presidenza della Repubblica nel 2006 e nel 2012, quando venne sconfitto rispettivamente da Felipe Calderón e da Enrique Peña Nieto. Il manto di leader antisistema - un «mesía tropical», per dirla con Enrique Krauze - veniva dunque indossato da chi proveniva proprio dal cuore del vecchio (culminato nelle presidenze populiste di Echeverria e López Portillo dal 1970 al 1982) e ne denunciava le deviazioni in senso neoliberista, dominante in Messico negli ultimi tre decenni, sia pure con sfumature diverse.

In questa tradizione, López Obrador presenta alcune varianti, ben evidenziate dal nuovo partito (Morena - Movimiento de Regeneración Nacional) da lui fondato sette anni fa e ora partito di maggioranza relativa nelle due Camere del Congresso messicano. In primo luogo López Obrador ha chiaramente rigettato il laicismo del vecchio populismo Priista, stemperato nel corso del tempo (al punto che proprio negli scorsi mesi sono state riallacciate le relazioni diplomatiche fra Messico e Vaticano) ma pur sempre parte dell’eredità della rivoluzione. In secondo luogo va considerato il rapporto di Amlo con il suo tempo e con gli altri populisti dell’area. Da questo punto di vista due nomi vanno tenuti presenti: Chávez e Trump.
I detrattori di Amlo affermano che egli rappresenterebbe la variante messicana del chavismo e nel 2006 la campagna presidenziale dei suoi avversari fu addirittura condotta denunciandolo come un «peligro para México». Non pochi sono in effetti i punti di contatto sia fra la situazione messicana di oggi e quella venezuelana del 1998, sia fra López Obrador e Chávez.

Diverso è però il contesto e soprattutto più forti sembrano essere gli anticorpi: la democrazia messicana è piena di limiti e contraddizioni, ma si è profondamente costituzionalizzata dal 1994 ad oggi. Il potere presidenziale sarà dunque astretto da una efficace rete di contropoteri, che, quali che siano le intenzioni del nuovo Presidente, non renderanno facile una deriva autoritaria. Quanto a Trump, è difficile negare che il linguaggio del presidente degli Stati Uniti - e in particolare la sua politica migratoria e il progetto di costruire un muro alla frontiera messicana - abbia rafforzato il nazionalismo di López Obrador, dato che proprio il nazionalismo è stato non solo uno dei suoi temi, ma anche uno dei grandi ingredienti dei populismi latinoamericani, di destra o di sinistra che fossero. Dove si può vedere la forza diffusiva dei populismi, che opera, però, non per assimilazione, ma per contraddizione. L’enormità dei problemi del Messico (violenza, corruzione, diseguaglianze sociali e territoriali, rapporti con gli Stati Uniti) sarà sulla scrivania di Amlo fra appena cinque mesi. Come per tutti i populismi – hard o soft, di sinistra o di destra – il contatto con la realtà è la prova del fuoco.

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