Confusioni da evitare, lavoro da fare
La prima lei, una ragazza di 10 anni, che stava per lanciarsi nel vuoto, è stata salvata da due poliziotte fuori servizio. La seconda lei, una donna di 52 anni che cercava di uccidersi nel Tevere ...
La prima lei, una ragazza di 10 anni, che stava per lanciarsi nel vuoto, è stata salvata da due poliziotte fuori servizio. La seconda lei, una donna di 52 anni che cercava di uccidersi nel Tevere, è stata salvata da un carabiniere che nelle sue ore libere si stava allenando su quel fiume con la canoa. Sono due fatti di straordinaria sofferenza e di ordinaria umanità che ci sono state consegnati ieri dalla cronaca, a Roma, proprio mentre la Corte costituzionale stava per sancire, con una sua sentenza che in tanti speravamo di non dover mai commentare, l’apertura condizionata al «suicidio assistito».
Cioè al suicidio agevolato – in determinate situazioni personali della persone richiedente – dalla cooperazione attiva di altri. Cioè al suicidio equiparato di fatto, sia pure in casi estremi, a una prestazione sanitaria che si può richiedere e ottenere da parte del Servizio sanitario nazionale. Due capovolgimenti limitati eppure radicali, che “fan tremare le vene e i polsi”. Una pietà che si fa mortale. Una medicina che si rende deliberatamente letale.
C’è da aver paura delle semplificazioni ora, e delle confusioni. E ci sarà da combatterle. Continuo ad augurarmi perciò che, se non tutti, almeno tantissimi possano rendersi conto – come mi ha confidato ieri mattina un saggio amico – della «distanza enorme» che pure c’è tra lo sterminio pianificato degli “imperfetti”, la resa della legge alla morte come rimedio al male di vivere e al viver male e l’aiuto a un malato inguaribile che pretende ostinatamente e disperatamente di morire anzitempo.
Spero cioè che ci resti chiaro che in quella «distanza enorme» ci sono tutte le diverse gradazioni della speranza, della disperanza, del dolore e persino dell’amore. Spero che conserviamo intatta la consapevolezza del rischio che si corre a fondere e confondere nella testa della gente e, in special modo, dei più fragili la morte programmata e procurata di coloro che vengono descritti sistematicamente come protagonisti di “vite indegne” (e costose da curare per i sistemi di welfare delle nostre indebitate società del benessere), la possibile morte a richiesta dei malati di depressione (ai quali, sia chiaro, questa sentenza italiana non assicura il suicidio di Stato come purtroppo accade in altri Paesi d’Europa) e la determinazione personale a farla finita di un tetraplegico cieco come era Dj Fabo. E spero ancor che possiamo “sentire” con cristiana partecipazione e civile empatia che in quella «enorme distanza» – come mi ha suggerito lo stesso saggio amico – c’è «l’umanità, il senso del sacro, l’amore per il ragionamento e l’ascolto dell’altro».
Ma le speranze si venano d’amaro e persino d’indignazione davanti ai coretti entusiasti subito intonati e alle liste di aspiranti suicidi prontamente sciorinate dai propagandisti della morte a comando. Se «laica libertà» fosse questo spettacolo e un vagheggiato futuro di morte erogata senza condizioni, povera la nostra libertà e poverissima la nostra laicità.
Non aiutano, però, neppure i contro-cori di quelli che pensano che non ci sia niente più da fare, se non sbattere la porta davanti a uno Stato ormai arreso alla “cultura della morte”. Non è così, non deve essere così. E c’è tutto da fare, da uomini e donne di coscienza, credenti e non credenti, dentro la società e dentro la nostra legalità perché le condizioni della vita e quelle poste a difesa della vita siano più forti delle condizioni di morte e per la morte. Perché terminare non faccia rima con curare, e guarire con morire. Perché il dolore non diventi mai rancore. Perché obiettare significhi restare. Restare umani.
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