giovedì 4 agosto 2016
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​Nella vita si verificano, a volte, delle curiose e inaspettate coincidenze, rispetto alle quali vale la pena riflettere. Domenica scorsa, come ormai sappiamo tutti, migliaia di leader religiosi e semplici fedeli musulmani si sono uniti fraternamente a noi cattolici nella Messa, il più solenne momento di preghiera e di memoria viva della morte e resurrezione di Cristo, per affermare a chiare lettere che non si può uccidere nel nome di Dio, ribadendo peraltro un concetto sacrosanto: le religioni per essere tali devono essere per la pace.A questo proposito ho scoperto, rileggendo un mio diario di viaggio, che, proprio vent’anni fa, in Somalia, il 31 luglio del 1996, ebbi modo di celebrare la santa Messa in una cittadina non lontano dalla capitale Mogadiscio. In quella circostanza, oltre ai volontari di una nota organizzazione non governativa, tra i presenti vi erano il presidente della Corte islamica locale, assieme agli anziani del suo consiglio. Considerando l’attuale irrequietezza e riottosità di alcune formazioni estremiste presenti in Somalia, preferisco omettere i nomi di persona e la località in questione. Ciò nonostante, non posso fare a meno di ricordare quell’esperienza. Lo scenario era quello di un Paese che aveva assistito al fallimento dell’operazione Restore Hope, col risultato che a dettare le regole del gioco erano i "signori della guerra". Va ricordato che dalla caduta del regime di Siad Barre, nell’ormai lontano 1991, la Somalia è in una condizione di permanente dissoluzione, ostaggio di numerose bande armate che seminano morte e distruzione.Sta di fatto che vent’anni fa la parcellizzazione del territorio era tale per cui lo scenario cambiava a seconda delle regioni, dei clan e dei sotto clan. La Provvidenza volle che mi trovassi a visitare in quei giorni una cittadina dell’entroterra dove la Corte islamica, con modalità, devo confessare, spicce ed estremamente invasive (esecuzioni, amputazioni e quant’altro), assicurava una discreta sicurezza e libertà di movimento. Fu proprio il presidente di quel tribunale islamico, fautore della shari’a (la legge coranica), ad accettare un inatteso dialogo, nel corso di un’intervista che poi, alcune settimane dopo, pubblicai sul settimanale "Epoca". Mi salutò cordialmente invitandomi a sedere in una stanza cupa e spoglia. Uno spiraglio di luce mi permetteva, a malapena, di scrivere quello che diceva. Ci separa una scrivania in legno intarsiato, retaggio dell’epoca coloniale italiana. Provai una strana sensazione. Mi sentivo fuori dal tempo e dalla storia. Dentro di me facevo fatica a riconciliare il messaggio di pace, di cui lo sceicco si diceva paladino, con ciò che avevo appena visto all’ingresso della corte. Uno spettacolo orribile: due mani appena amputate, appese a una sbarra con una striscia di garza. Era stata la pena inflitta a due ladri di bestiame.Gli contestai subito quelle pratiche disumane e lui tentò di difendersi, affermando che rappresentavano una sorta di deterrente contro l’illegalità devastante che minava la società somala. Quando, il giorno dopo, m’incontrò nuovamente mi disse che aveva capito molto bene chi fossi: «Tu non sei solo un giornalista, sei un prete». Ebbi paura d’essermi messo nei guai, ma lui sorrise, citandomi la famosa quinta sura del Corano che recita: «In verità muslim, ebrei, cristiani e sabei, tutti coloro insomma che credono in Dio e nella resurrezione, che compiono buone azioni e osservano la giustizia, essi tutti parteciperanno alla ricompensa di Dio e non conosceranno paura, né dolore». Sull’onda di quella citazione, gli chiesi se potessi celebrare la Messa.Me lo accordò e vi prese parte. Mi rendo conto di essere stato incosciente, ma se ora sono qui a raccontarlo vi sarà certo una ragione. Da quelle parti, in effetti, vi era una chiesa, costruita dagli italiani, che pochi mesi prima era stata rasa al suolo dagli estremisti. Personaggi che ancora oggi, in Somalia, predicano lo scontro delle civiltà. Eppure, un’antica storia mediorientale racconta di un viandante che incontrò un mostro nel deserto. Inizialmente, il poveretto ebbe paura ma, riuscendo a scorgerlo più da vicino, s’accorse che era un uomo. Di lì a poco lo distinse ancora meglio e scoprì che dopo tutto non era così brutto come pensava. Alla fine quando lo scorse negli occhi, riconobbe suo fratello. Questo vale per noi e per loro. Questo vale per tutti.
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