mercoledì 4 gennaio 2017
Si è tenuto il IX congresso del "cattolicesimo ufficiale"cinese. Al centro la questione dell'ordinazione dei vescovi.
Cina-Santa Sede: qualcosa sta cambiando
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Dopo la chiusura, il 29 dicembre, del IX Congresso dei rappresentanti cattolici in Cina la prima sensazione è stata di “scampato pericolo”. Massima assise del cattolicesimo “ufficiale” cinese, organismo controverso ed estraneo alla dottrina e alla prassi della Chiesa cattolica, il suo svolgimento è stato atteso con preoccupazione.

È ancora vivo, infatti, il ricordo di quello precedente, nel 2010, che ha coinciso con lo scontro più aspro – in tempi recenti – tra Santa Sede e governo cinese. Questa volta i vescovi non sono stati forzati ma trattati con rispetto, non ci sono stati incidenti e tutto si è svolto – a detta di diversi partecipanti – in un clima complessivamente disteso. È inoltre aumentato il numero dei dirigenti della Conferenza dei vescovi e dell’Associazione patriottica riconosciuti da Roma (sono stati confermati i presidenti dei due organismi e vicepresidente di entrambi è stato eletto Shen Bin, vescovo di Haimen, considerato un elemento conciliatore).

Non c’è stato insomma, lo “schiaffo” nei confronti di Roma che pure qualcuno ha creduto di vedere. Alla sua vigilia, la sala stampa vaticana aveva emesso un comunicato distensivo – a differenza del 2010, Roma non ha chiesto ai vescovi cinesi di non partecipare – dichiarando però che la S. Sede avrebbe valutato sulla base dei fatti e auspicando “segnali positivi che aiutino ad avere fiducia nel dialogo tra le Autorità civili e la Santa Sede”. La prova dei fatti, dunque, ha dato ragione alla prudenza della Santa Sede. Ma, al di là dell’impressione di scampato pericolo, che cosa ha rappresentato questo passaggio nella tormentata storia del cattolicesimo cinese?

Il IX Congresso è stato segnato soprattutto da quella che appare una contraddizione. Da una parte, i richiami all’indipendenza della Chiesa cattolica cinese sono stati numerosi ed insistiti. Dall’altra, il Direttore dell’Amministrazione nazionale per gli Affari religiosi (Sara) – che ha rango di ministro – ha dichiarato ufficialmente che “la Cina vuole avere conversazioni costruttive con il Vaticano per restringere le differenze, aumentare il consenso [tra le due parti] e promuovere il miglioramento delle relazioni”. Ed è evidente che tale avvicinamento è incompatibile con un’“indipendenza” del cattolicesimo cinese intesa come separazione da Roma. In realtà, la questione dell’“indipendenza” si presenta oggi in modo diverso dal passato.

Solo nell’ultimo anno e mezzo, ci sono state cinque ordinazioni episcopali con il coinvolgimento di Roma, mentre una delegazione del governo cinese incontrava più volte quella della S. Sede chiedendo un accordo sulla nomina dei vescovi che prevede un ruolo della Santa Sede e il riconoscimento degli illegittimi da parte del Papa. Fino a poco tempo fa, tutto questo veniva escluso come un’interferenza inaccettabile. Insomma, anche se la parola è sempre la stessa, sta cambiando l’applicazione del concetto di “indipendenza” ed è in corso una sua implicita ridefinizione.

Il IX Congresso ha continuato su questa strada. Se il ruolo svolto al suo interno da dirigenti del Sara e del Fronte Unito indica qual è il principale elemento di continuità – e cioè il rapporto con il potere politico –, un segnale di discontinuità è venuto dall’assenza di riferimenti all’“autoelezione” e “autordinazione” episcopale (non a caso, non sono oggi previste ordinazioni illegittime, che appena due anni fa non erano invece escluse dal working plan del Sara). Sono stati segno di novità anche le affermazioni dei dirigenti di questo organismo che la Chiesa in Cina è una sola. Ciò non solo esclude una prospettiva scismatica come quella costituita da un’eventuale Chiesa di Stato, ma impone anche di affrontare il problema dei vescovi “clandestini”, di cui non a caso ha parlato apertamente il vice-ministro del Sara. È stata inoltre confermata e perfezionata la revisione dello statuto della “Conferenza dei vescovi” intrapreso nel 2010 per ribadire la comunione nel “campo della dottrina delle cose di fede” con il successore di Pietro.

Nella stessa linea si colloca anche la scomparsa di un concetto molto usato in passato: “opporsi decisamente alle interferenze e danneggiamenti delle forze straniere infiltrate”, che esprimeva la tradizionale accusa al Papa e alla S. Sede di interferire negli affari interni cinesi. Il concetto non è stato ripreso neanche dal numero quattro della nomenclatura, Yu Zhengsheng, che – insieme al vicepremier Liu Yandong – ha ricevuto i delegati del IX Congresso a piazza Tian’anmen, nel Palazzo della Conferenza politica consultiva di cui è presidente, per imprimere il sigillo dell’approvazione politica ai lavori del IX Congresso.

L’ammorbidimento, dunque, non sembra riguardare solo le conseguenze dell’indipendenza ma lo stesso principio. Come alcuni funzionari cominciano a riconoscere, è sempre più improponibile un principio di indipendenza basato sull’accusa di complicità del cristianesimo con il colonialismo e il feudalesimo. E prospettano in questo senso una rivisitazione delle “tre autonomie” dei primi anni cinquanta – “autogoverno”, “autofinanziamento” e “autopropaganda” –, inizialmente slegate dall’“autoconsacrazione” dei vescovi subentrata solo successivamente. Vari elementi, insomma, fanno ritenere che il dialogo tra governo cinese e Santa Sede non abbia solo costituito l’oggetto di una dichiarazione, ma svolto anche un ruolo più profondo.

Negli ultimi anni, infatti, molto più di tante richieste di maggior fermezza, di condizioni più esigenti, di soluzioni immediate per tutti i problemi, ha potuto l’esperienza concreta di questo dialogo. Incontrando interlocutori disarmati, che non avanzano rivendicazioni politiche ma sollevano questioni religiose, interessati al bene dei popoli e alla pace, i dirigenti cinesi hanno cominciato a riconoscere che non stanno trattando con uno Stato come gli altri. E la discussione si è spostata sempre di più dai problemi politici alle questioni religiose, anche se il termine “indipendenza” è stato ripetuto molte volte durante il Congresso, probabilmente per compensare la progressiva attenuazione delle sue implicazioni (allo stesso modo si spiegano forse anche i gesti simbolici per riaffermarla, come la presenza di un vescovo illegittimo in due delle recenti ordinazioni episcopali).

Resta da vedere se ci saranno ulteriori evoluzioni in questa direzione. La fragile barca del cattolicesimo ufficiale è uscita rafforzata dal IX Congresso e così pure il “partito del dialogo”, che include dirigenti del Ministero degli Esteri, del Sara e del Fronte Unito.

Nei prossimi mesi, però, gli addetti ai lavori sulla questione cattolica dovranno fare i conti con dinamiche più forti di loro, come mostra l’insistenza sulla “sinizzazione” durante il IX Congresso. Lanciata dalla Conferenza nazionale sulle religioni dello scorso aprile dallo stesso presidente Xi Jinping, la politica della “sinizzazione” delle religioni è maturata nel contesto dei problemi complessivi posti da queste alla stabilità cinese, con particolare riferimento all’estremismo e al terrorismo islamista.

Nata dunque senza riferimenti specifici della Chiesa cattolica, viene ora applicata anche a questa per ovvi motivi di uniformità politica, senza tuttavia porle – almeno finora – particolari difficoltà. Rispondendo al comunicato della Sala stampa vaticana, la portavoce del Ministero degli Esteri ha unito proprio la sinizzazione ad una distensiva riconferma del dialogo con la Santa Sede e all’esplicito riconoscimento – singolare per un’istituzione della Repubblica popolare cinese – che la Chiesa cattolica deve svolgere il compito di evangelizzare la Cina. Qualcosa forse cambierà con il XIX Congresso del Partito, che si terrà in ottobre. Intanto, però, i rapporti difficili con Taiwan, complice anche l’imprevedibilità di Trump, potrebbero facilitare il dialogo tra Roma e Pechino.

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