Chi sta pagando il prezzo più salato del caos dazi? A quasi quattro mesi dall’inizio del secondo mandato di Donald Trump alla Casa Bianca - un tempo segnato da minacce, firme di ordini esecutivi per l’introduzione di nuove tariffe, retromarce e successivi compromessi – ci sono alcuni punti fermi che consentono non solo di decifrare i primi, parziali, impatti che la telenovela commerciale sta causando tra mercati ed economia reale, ma anche di intravedere chi ha più da perdere o da guadagnare.
Partiamo da una data: il 2 aprile 2025, ribattezzata dal presidente degli Stati Uniti con l’espressione “Liberation Day” e celebrata con tanto di cerimonia ufficiale a Washington. In quell’occasione, Trump lanciò il suo ambizioso piano di stravolgimento delle dinamiche del commercio globale al grido di “America First”. All’indomani delle bellicose dichiarazioni contro le merci straniere, le Borse mondiali hanno reagito con un crollo fragoroso. Ribassi pesanti che si sono susseguiti per quasi una settimana da Wall Street alle piazze asiatiche, senza risparmiare quelle europee. C’è chi ha ventilato persino la possibilità del “Cigno nero”, ovvero l’ipotesi di essere davanti a un evento raro dalle conseguenze finanziarie catastrofiche.
Passato lo choc del momento, tuttavia, il sentiment dei mercati è progressivamente migliorato. Captando segnali di distensione nelle relazioni commerciali, i listini sono ben presto risaliti, fino a trasformare il panico in una vera e propria euforia azionaria in occasione dei due accordi firmati dagli Stati Uniti prima con il Regno Unito (l’8 maggio) e subito dopo con la Cina (il 12 maggio) con una tregua di 90 giorni siglata in terra svizzera. Quasi tutte le Borse hanno recuperato le perdite pregresse, con molti indici che si sono riportati addirittura nei pressi dei massimi storici. Limitando lo sguardo a quel puntino sul mappamondo chiamato Italia, basti dire che a Piazza Affari il Ftse Mib ha superato la soglia psicologica dei 40mila punti, livello record dal 2007. Persino lo spread ha beneficiato del disgelo commerciale (oltre alle fatiche altrui), con il differenziale dei titoli di Stato italiani e quello dei Bund tedeschi tornato verso quota 100. Insomma, se qualche mese fa c’era il timore diffuso che fossero i mercati finanziari i primi a “pagare dazio”, i numeri dicono che finora così non è stato. È bastato un precario armistizio a riportare di colpo indici e valori alla casella di partenza - come in un grottesco gioco dell’oca geopolitico - e a riaccendere l’entusiasmo degli investitori.
Peccato che lo stesso clima di festa non abbia contagiato imprese e consumatori, categorie meno inclini a esaltazioni facili e meno equipaggiate a “surfare” sulla volatilità dei mercati. Il congelamento per tre mesi di un’impennata delle tariffe reciproche tra superpotenze è servito a far tirare un sospiro di sollievo finanziario, ma non risolve i problemi economici. Perché nell’economia reale l’incertezza non solo è rimasta, ma si moltiplica di giorno in giorno. Sapere se siamo di fronte a un congelamento dei dazi transitorio o permanente fa tutta la differenza del mondo per chi deve disegnare strategie di sviluppo, decidere se continuare a presidiare mercati tradizionali, valutare nuove destinazioni per l’export e programmare il futuro. Non a caso un'indagine diffusa nei giorni scorsi da EY rivela che, nei primi mesi dell’anno, il 58% delle aziende italiane ha posticipato gli investimenti proprio a causa delle politiche protezionistiche del governo statunitense. E anche le acquisizioni da gennaio ad aprile sono crollate del 16% rispetto a un anno fa.
Mettere in stand-by l’aumento dei dazi, senza avere la minima idea di che cosa accadrà a fine estate, sta generando un effetto paralisi: rallentamento della produzione, rinvio degli investimenti, contrazione delle spese, minor accesso al credito. A cascata, questo atteggiamento prudente e cautelativo delle aziende si tradurrà in una riduzione del contributo dell’industria al Pil, in un aumento dei prezzi dei beni e in salari reali che faranno sempre più fatica a tenere il passo dell’inflazione. Insomma, se è vero che i dazi fanno male a tutti, compreso a chi li fa - come hanno ribadito più volte voci autorevoli, dal presidente Mario Draghi al governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta -, quasi certamente le pause di riflessione danneggeranno alcuni molto più di altri. La “de-escalation” temporanea delle tariffe (e poi chissà) si sta rivelando una soluzione tampone corroborante per la finanza, ma nel frattempo condanna l’economia reale a fare i conti con uno scenario commerciale sempre più avvolto nell’ignoto.

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