mercoledì 2 giugno 2010
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Un figlio lo vole-vano con tutto il cuore, davvero. Avevano presentato i documenti al Tribunale di Catania, si erano sottoposti a colloqui e perizie psicologiche da parte dei servizi sociali. Avevano contattato un ente autorizzato, perché il bambino lo avrebbero cercato all’estero, visto che – si sa – in Italia adottare è ancora più difficile. Però. C’era un però: desideravano un figlio con la pelle chiara o comunque dall’aspetto «tipico europeo». Quindi niente bambini sudamericani, né africani, né asiatici: troppo diversi da mamma e papà, troppo complicato da gestire l’inserimento a scuola, forse il giro dei parenti avrebbe trovato da ridire.In realtà, non sappiamo le vere motivazioni della coppia, ammesso che ce ne siano. Sappiamo però che le Sezioni unite civili della Corte di Cassazione, con la sentenza di ieri, hanno stabilito che quell’uomo e quella donna non possono adottare. «Carenze nella capacità di accoglienza», è la diagnosi – pesantissima – dei giudici, sollecitati a dare un parere dall’Aibi, uno degli enti autorizzati all’adozione internazionale, considerato tra i più rigorosi e severi in Italia. L’associazione da tempo combatte una battaglia solitaria contro i cosiddetti «decreti vincolati» dei Tribunali per i minori, o, con un’espressione più brutale, i «decreti razzisti», quelli in cui i giudici (accade raramente, per la verità) decretano l’idoneità all’adozione accogliendo però le riserve dei genitori sulla nazionalità o sul colore della pelle dei bambini. Forse è un po’ troppo dire che quella coppia è «razzista». Forse marito e moglie, frustrati per l’impossibilità di generare, hanno visto in un figlio che fosse simile a loro, l’uscita dal tunnel doloroso della sterilità. Forse pensavano che nell’ambiente in cui vivono l’integrazione di un bambino "diverso" sarebbe stata difficile: esistono ancora posti così, anche nell’Italia del Terzo Millennio, sarebbe ipocrita negarlo.Non sono genitori, umanamente parlando, da mettere alla gogna, da bollare come indegni o addirittura «razzisti». Ma, certo, si sbagliavano e la Corte di Cassazione bene ha fatto a ricordarlo, a loro e alle altre coppie che ponessero condizioni. L’adozione è per dare una famiglia a un bambino, non viceversa. Come nessuna mamma può porre condizioni al figlio che cresce in grembo, così nessun genitore ha il diritto di scegliere il figlio adottivo a sua immagine e somiglianza. Lo dice la normativa che in Italia ha regolato le adozioni, nel lontano 1983, lo dice soprattutto la legge del cuore. E, se non bastasse ancora, lo ripetono – o dovrebbero farlo – gli enti autorizzati nei corsi di preparazione per gli aspiranti genitori. Ecco, forse questo è mancato a quella coppia: un percorso serio di accompagnamento, che li aiutasse a superare resistenze e preconcetti, che facesse comprendere in profondità che aprirsi all’adozione è soprattutto un atto di gratuità verso un bambino che ha già sofferto l’abbandono. E ora chiede un amore senza condizioni. Un amore senza se e senza ma.
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