giovedì 7 febbraio 2013
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Forse è stato un azzardo impossibile, quello dei padri della Costituzione, aver scritto che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato. Nel pensiero giuridico dell’Italia premoderna, fra pena ed emenda c’era un abisso. Scriveva Francesco Carrara, nel suo “Programma del corso di diritto criminale” che la pena dev’essere afflittiva per il reo, esemplare, irredimibile, senza cessare se il reo si emendi, perché «punire vuol dire recare un male». L’emenda, pur lodata, era per quel pensiero altra cosa: «emendare, istruire, educare vuol dire recare un bene grandissimo», ma fuori dalla pena. Appartiene ad altra iniziativa umana, lascia la pena dentro il suo necessario dolore. Una linea dura, inflessibile. La Costituzione ha varcato questa linea di separazione, ha inserito la funzione rieducativa nel seno stesso della pena. Vale a dire che la tensione rieducativa intrinseca è condizione di ammissibilità d’ogni pena. Non c’è scritto in Costituzione: multa, carcere, frustate, o chissà. C’è scritto rieducazione; e se una pena, ereditata dal passato o escogitata di fresco, non ha la tensione educativa, è una pena non ammessa, è una pena fuorilegge. Nella febbrile attenzione che negli ultimi anni (anni, vi rendete conto?) ha chiesto a noi tutti la situazione carceraria italiana, di singolare disumanità nel mondo, il suo aspetto crudele, umiliante, di tortura di Stato ci può dare solo il primo urto. Ma non basterebbe toglierci di dosso questa macchia turpe per dar conto ai padri costituenti d’aver adempiuto oppure tradito la loro ulteriore promessa. Dunque è il carcere in sé, è questo carcere in sé, è la filosofia della cella che va ripensata.E ora questo nobile vecchio presidente della nostra Repubblica, che passa una mattinata a San Vittore, storico carcere emblematico della sofferenza cementata dietro le sbarre di ferro, e visita i detenuti e parla con parole di uomo ad altri uomini, mentre il tempo fattosi breve lo incammina al congedo dalla sua carica, non fa una visita di cortesia, o un gesto di protocollo. Fa un atto politico e penitenziale; porta l’Italia, di cui impersona l’unità, e la classe dirigente che se ne dice rappresentante, a una voglia di emendare se stessa per non aver saputo, o voluto, fare giustizia in ordine alla pena. Una pena fatta così è l’epilogo nel quale la giustizia s’illude di celebrare la vittoria sul male mediante un male che offende la dignità dell’uomo, la ferisce al pari del delitto con i suoi riti di umiliazione. La vergogna di fronte al mondo va di pari passo con il rimorso della coscienza civile e morale.A far da contrappunto alle parole del presidente Napolitano, le parole di una donna straniera (proprio sulla tensione rieducativa, come «elemento che ci permette di dare senso al nostro percorso di cambiamento») e di un uomo italiano (sulla concreta urgenza di soluzione già ora praticabile, per 20mila detenuti almeno, con misure alternative). La méta e il cammino, insieme. Il monito e la supplica. La ragione e la passione.Che questa giornata resti impressa nella memoria della classe politica che sta per rinnovarsi, in cima alle agende. Che scuota anche i magistrati, ai quali la legge dà le chiavi per chiudere e per aprire, nei margini possibili. Giustizia è parola tagliente, sei mesi di carcere senza condizionale a una giovane donna romena con tre bambini, per un fatto di mendicità del 2006, sono l’ultimo esempio della sferza sui poveri. Rieducativa? No, crudele e basta.
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