lunedì 6 ottobre 2014
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Cento giorni di viltà. E di sangue. Il Califfato di al-Baghdadi – sui siti e nella realtà che governa da oltre tre mesi – si atteggia a Stato, si dà un governo e amministra la giustizia, decapitando e imponendo regole alla popolazione che vanno ben oltre quanto fatto vedere dai taleban nella gestione del potere a Kabul. Ma se da un lato c’è una macchina della propaganda che funziona a pieno regime e sforna filmati e tragiche decapitazioni con un cerimoniale reiterato, dall’altro c’è anche una viltà di fondo che travalica ogni limite, anche quello di una farneticante concezione dell’islam. Tutti gli ostaggi occidentali che sono stati decapitati, e la cui esecuzione è finita sul Web, nulla avevano a che vedere con la guerra o con l’offensiva in corso per contrastare lo Stato islamico. Solo il loro passaporto contava, non ciò che stavano facendo nel momento in cui sono stati rapiti. Certamente non erano lì per combattere, da nessuna parte del fronte. Anzi, alcuni sono stati addirittura "ereditati" dai miliziani di al-Baghdadi o comprati da altri gruppi terroristici che già operavano in Siria e in Iraq. L’americano James Foley era un reporter scomparso nel nulla nel novembre di due anni fa, l’altro statunitense, Steven Sotlof, era anche lui un giornalista partito per raccontare una guerra che insanguina da più di tre anni il Medio Oriente. Lo scozzese David Haines lavorava per una Ong dopo aver operato anche in Libia e Sud Sudan. Come Alan Henning, ultimo delle vittime della minatoria follia jihadista, scomparso nove mesi fa, che aveva scelto di stare a fianco della popolazione siriana. Il francese Hervé Gourdel, trucidato in Algeria, era un turista mentre l’ultimo americano – condannato a morte dall’Is nel video di Henning – è il fondatore di una Ong: Peter Kassig, dopo essersi congedato dall’esercito, aveva scelto di aiutare chi soffre. Tutte vittime "collaterali" di una guerra che non risparmia nessuno. E che rapisce tutti. Come il gesuita Paolo Dall’Oglio, come Vanessa Marzullo e Greta Ramelli, le due cooperanti italiane arrivate ad Aleppo a fine luglio per portare a loro modo aiuto a un popolo stremato, e sequestrate da uomini armati. Non se ne sa più nulla, forse sono in mano ad un gruppo diverso dallo Stato islamico. Forse. Anche loro, di certo, non erano lì con un kalashnikov in mano.
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