C'è vita oltre le strazianti quinte del teatro della morte
martedì 2 novembre 2021

Ho il vago ricordo di un 2 novembre molto lontano, a Parma, una mattina di nebbia. Portarono anche me, piccola, dai morti, alle Villette. Negli occhi ho i fotogrammi di quelle file di tombe di marmo, ciascuna con il volto di uno sconosciuto sopra, vestito di nero, assorto. Guardavo le facce a una a una, e non capivo. È difficile da spiegarsi, a quattro o cinque anni proprio io non capivo cos’era la morte, che cosa vuole dire: come non lo sanno, nella loro innocenza, gli animali. Solo, in quella città silenziosa sentivo la nebbia penetrare il cappotto con il suo fiato freddo. Stringevo la mano di mio padre, volevo andare a casa. A otto anni la sepoltura di mia sorella, nella neve del cimitero di Cortina, lacerò di colpo il sipario: la morte è una stanza vuota, è uno strappo nella carne, la morte è che vieni abbandonato. Davanti alla lapide domandavo un segnale, anche piccolo, anche il cantare di un uccello. Niente, mai. Quel muro era impenetrabile.

A vent’anni però le città del silenzio cominciarono a affascinarmi. Quante storie potrebbero raccontare questi volti, mi dicevo, quanta vita e felicità e dolore stanno, dimenticate e dimenticati, nelle tombe. Allora ogni volta che arrivavo in una città nuova, andavo a vederne il cimitero. Mi pareva che fosse un rispettabile punto di inizio per capire fra quale gente mi trovavo. Quanto dice di Milano, il Monumentale con le sue tombe orgogliose. Mi incantò a Parigi il Pére Lachaise sotto la neve, un mondo con una sua vita segreta. E, a Praga, il cimitero ebraico, con quelle incredibili antichissime lapidi di padri e figli addossate una sull’altra, come pagine di un libro di pietra. Ma in questo anno sono tornata nei cimiteri, perché sono morti degli amici ancora giovani. A Bruzzano, hinterland di Milano, lo choc nel vedere campi pieni di tombe appena coperte di terra, a volte senza ancora una croce. E l’altro giorno a San Fruttuoso di Monza, lo stesso: tante lapidi nuove, tutte del 2021.

Col Covid si è preso a usare la ruspa per coprire le fosse, troppi erano i morti. Lo spettacolo di una ruspa che, seppure delicatamente, copre la bara dell’amico con cui eri al mare questa estate, si piazza nei ricordi per sempre. Ti senti come la terra nera che cade nella fossa: terra, semplicemente, non è questo che siamo chiamati col nostro corpo a diventare? La crudezza della sepoltura in terra è brutale, ma così vera. Ricorda, a ogni visita e a ogni Giorno dei Morti, come breve è la vita, e come non ci appartiene. Punge di più, questa coscienza, quando lì sotto cominciano ad andarci i tuoi coetanei. Appena ieri con te, oggi così lontani. Mi rivedo nel cimitero di Parma, piccola, stupefatta di quella città nella città, di cui non sapevo. Ignara di tutto, ma istintivamente sgomenta del freddo dei marmi, del tempo che sbiadiva i nomi sulle lapidi. Ora penso che questa è però solo l’apparenza della morte. Come le quinte di un teatro. Dietro, ne sono certa, c’è tutt’altro, un inimmaginabile altro.

Bellissimo, credo. Mi strazia la morte di un amico, perché ne vengo abbandonata. Ma come vorrei per un istante accompagnarlo, solo per dare un’occhiata. Forse non avrei più paura allora di quella barriera insormontabile, se vedessi che, oltre, c’è vita: un’altra vita, in Cristo. Vita vera, vita che non muore – come un grande fiume dalla generosa, inesauribile sorgente.

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