domenica 26 gennaio 2014
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Ci risiamo. È come un terribile déjà vu: l’Argentina si trova ancora una volta sull’orlo del baratro. Tredici anni dopo la più grande insolven­za pubblica della Storia recente, quasi cento miliardi di dollari, l’ennesimo choc valutario è pericolosamente vicino. Da inizio an­no il peso si è deprezzato del 20% nei confronti del biglietto verde, con un crollo del 14% in soli due giorni, gli ultimi. L’inflazione reale viaggia ol­tre il 30%, anche se il governo si ostina a consi­derarla ufficialmente vicina all’11%, e potrebbe presto lambire il cinquanta. Non solo: le riserve valutarie – letteralmente 'bruciate' dal Banco Central per difendere la moneta e contrastare la fuga dei capitali all’estero – sono scese a poco più di venti miliardi, livello del tutto insufficiente, e sono comunque dimezzate rispetto a un anno fa. Insomma: un nuovo crac è dietro l’angolo. Solo che, a differenza di quanto accadde nell’or­mai lontano 2001-2002, a pagarne interamente il prezzo sarebbero gli argentini e non i debitori esteri, compresi i 75mila risparmiatori italiani che tuttora aspettano, dopo una sterminata te­lenovela giudiziaria, di recuperare una briciola dei vecchi Tango bond. La crisi valutaria rica­drebbe sulle spalle domestiche, soprattutto su quelle più deboli, con inevitabili e drammatici costi sociali per il tracollo economico e i prezzi alle stelle, perché la scelta 'avanti da soli' com­piuta da Buenos Aires dopo il default si è rivela­ta alla lunga insostenibile. E non permetterebbe, ora, di finanziarsi sui mercati internazionali. Gli investitori esteri ne uscirebbero immuni, quelli domestici schiacciati.
Una lezione da tenere a mente per quanti, in piena febbre da spread, con un attacco speculativo sul debito italiano, sug­gerivano di mandare a quel paese tutti, a partire dall’Europa e dai suoi paletti, per tornare alla li­ra e ricominciare in buona pace con la propria valuta, stampandola a volontà, senza i rimbrot­ti – ma anche senza lo scudo – della Banca cen­trale europea. Quanto fatto a Buenos Aires dopo il fatidico 23 dicembre 2001, isolarsi dal mondo all’insegna di una quasi-autarchia monetaria, all’inizio ha pro­dotto risultati incoraggianti.
I governi Kirchner (Nestor e, poi, la moglie Cristina Fernandez) han­no scelto di combinare una forte spesa pubblica al controllo del cambio, prima ancorato al dolla­ro, con ricadute economiche a tratti folgoranti: il Pil è balzato oltre l’8%, grazie al boom delle e­sportazioni agricole, la soia su tutte, realizzando in poco meno di un decennio un saldo della bi­lancia commerciale da primato. La disoccupa­zione è precipitata del 50% e il tasso di povertà si è sgonfiato dal 60 al 30%. Ma nel frattempo non è stata portata a termine alcuna riforma struttu­rale. È invece cominciata, a partire dal 2007, una manipolazione delle statistiche ufficiali. Come accadde in Grecia, per favorire l’ingresso di Atene nell’euro. Secondo la Casa Rosada, l’in­flazione viaggiava al 10%, quando in realtà correva a velocità tripla. La valuta ha iniziato a de­prezzarsi e gli argentini hanno ricominciato a comprare dollari, temendo un collasso del peso, ali­mentando così il mercato nero e la fuga della liquidità. Quando la Banca centrale avrà esaurito le ri­serve per contrastare tale fuga, sarà costretta a svalutare il cambio. Provocando un crollo dell’atti­vità economica e l’incendio dei prezzi. 
L’inflazione è il modo con cui il governo mette le sue mani nelle tasche e nei depositi bancari dei cittadini, li deruba del loro potere di acquisto e ingrossa l’e­sercito dei poveri. L’atavica trappola sudamericana: regime di cambi flessibili, mal gestito, e iperin­flazione. Tagliola che ha ripetutamente ferito l’Argentina, sino a metà Novecento fra i Paesi più ric­chi al mondo, prima che iniziasse l’interminabile spirale di crisi valutarie e default. La lezione ar­gentina è da non dimenticare. Soprattutto allorché si favoleggiano le mirabilie di un addio all’euro. Un conto è chiedere con senso e forza all’Europa di abbandonare la sola politica di austerità per fa­vorire la ripresa. Altro pensare di salutare l’Unione e l’Eurozona per ballare da soli.
Il Nobel Simon Kuznets osservò con un’ironia non da tutti apprezzata come ci fossero quattro tipi di Paesi: svilup­pati, sottosviluppati, Giappone e Argentina. L’Italia merita di restare fra i primi. E l’Argentina di tro­vare finalmente governanti all’altezza della sua grande tradizione per esserle a fianco.
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