mercoledì 21 luglio 2010
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La Svimez documenta, con toni cupi, la situazione dell’economia del Mezzogiorno nella grande crisi. Nessuna sorpresa. L’ondata della recessione ha colpito con grande violenza l’intero Paese, la più forte del dopoguerra. Ma vi è di più, che spiega il presente e deve far riflettere sul futuro. L’ondata della crisi ha colpito un’Italia, a tutte le latitudini, indebolita da un decennio di bassissima crescita, la minore del dopoguerra. Il Sud ne ha molto sofferto, dato che presenta accentuati alcuni caratteri di debolezza del sistema produttivo nazionale: bassa dimensione d’impresa; poca ricerca e innovazione; più limitata propensione all’internazionalizzazione, specie sui mercati emergenti. E dato che ha minore reddito, e quindi domanda, delle famiglie; maggiore povertà e disagio sociale; più modeste infrastrutture; un peso maggiore del settore pubblico, soggetto a forti ridimensionamenti.Ma vi è ancora di più. Il Sud (e questa volta solo il Sud) è stato colpito da un’altra forte ondata. Il depotenziamento radicale di quasi tutte le politiche di sviluppo, specie nell’ultimo biennio. Pochi lavori in corso. Nessun incentivo operativo – come ci ricorda la Svimez – per gli investimenti; la loro utilità è dubbia, ma mai come in un momento come questo possono essere utili. Le politiche nazionali di sviluppo territoriale sono andate in soffitta. Il ministero dello Sviluppo Economico è, da molto tempo, in ferie. E, ancora, un’altra ondata; la più pericolosa. Di preoccupazione, di sfiducia; che rende incerti i consumi delle famiglie; fa rimandare gli investimenti; fa guardare al futuro con timore. La sfiducia è forte in tutto il Paese. Ma raggiunge l’apice al Sud. Si incrocia con una narrazione a tinte fosche, dove tutto è camorra o spreco. Gli italiani sono sfiduciati sul Sud; non ne vedono possibile il riscatto.E forse, forse, sta arrivando un’ultima definitiva ondata. Quella di un federalismo fiscale a senso unico: nel quale la virtù non sta nei comportamenti ma nei livelli già raggiunti. Una prospettiva nella quale  la povertà apparirebbe un vizio e i diritti di cittadinanza rischierebbero di diventare una chimera. Non è affatto detto che sia così. Ma purtroppo l’ipotesi ancora possibile. E invece il federalismo fiscale può e deve essere un’occasione di responsabilità e di crescita. Può e deve essere un’onda che spinge e che non travolge.Incredibilmente, la politica si mostra tenacemente disinteressata al tema. Se ne occupa saltuariamente, per rafforzare ancor più una narrazione sciatta dove tutto (o quasi) nel Meridione è camorra e spreco. Contempla il calo drammatico dell’occupazione, in regioni dove il lavoro per i giovani e le donne è già scarso, senza reagire. Non si interroga sui possibili futuri; non disegna scenari. Spera che ce la caviamo. Non percepisce nemmeno che – in tempi straordinari come quelli in cui viviamo – vi è il pericolo che disagi straordinari producano forme di protesta inedite.Negli ultimi anni, solo la Conferenza episcopale italiana e la Banca d’Italia si sono poste con serietà il problema dello sviluppo dell’intero Paese, del Nord e del Sud insieme. Sapendo che l’Italia dopo la crisi può tornare a essere forte solo se cresce l’occupazione al Sud. Condizione indispensabile per rendere sostenibili i conti pubblici e un federalismo fiscale rigoroso ma equo; per risollevare la domanda interna; per dare una prospettiva di vita ai giovani e alle famiglie. Per evitare uno smembramento, nei fatti, del Paese. Che non gioverebbe a nessuno. Di tante cose discute con accanimento la politica italiana ma non di questo: le strade, strette e molto difficili ma possibili, per rilanciare l’occupazione. Ovunque; ma soprattutto al Sud; e soprattutto per i giovani e le donne. Nulla suona più distante dalla realtà del dibattito politico dei contenuti di un grande, ambizioso, progressivo Piano del Lavoro. Ma nulla sarebbe più utile oggi, per l’Italia tutta intera: guardare al futuro; ripartire dal lavoro.
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