Esito amarissimo di una vicenda per molti versi sconcertante: è il minimo che si possa dire. Dunque, libero e trionfante è tornato a Tripoli il generale Almasri, benché colpito da un mandato di arresto della Corte penale internazionale per tortura e altri crimini gravissimi, di cui vi sono molteplici testimonianze di istituzioni e organizzazioni non governative internazionali, documentate da tempo su queste colonne. Provvisoriamente arrestato sabato sera dalla Digos a Torino, è stato scarcerato tre giorni dopo dalla Corte d’appello di Roma.
Giuridicamente, la soluzione si appoggia a un’interpretazione, che è ingeneroso definire “un cavillo” ma che non può dirsi incontrovertibile, della legge italiana di attuazione dello Statuto della Corte dell’Aja, la 237 del 2012. In sostanza - dicono i giuridici romani, cui competeva decidere su un’istanza difensiva - la Polizia, prima di procedere all’arresto, avrebbe dovuto interloquire con il ministro della Giustizia, non avendo il potere di agire come ha agito di sua iniziativa. È una risposta che fa leva sul silenzio mantenuto, su quest’ultimo punto, dall’art. 11 della legge, la quale si diffonde invece sul potere-dovere del ministro di chiedere alla corte d’appello, in casi del genere, che sia cautelarmene custodita la persona della quale è richiesta la consegna alla giustizia penale internazionale.
È il classico argomento riassunto nel latinetto “ubi lex voluit dixit ubi noluit tacuit” (dove la legge volle, parlò; dove non volle, tacque), ma c’è spazio pure per ragionare in senso contrario: l’articolo 3 della legge suddetta stabilisce in via generale che nelle materie di cui si tratta «si osservano, se non diversamente disposto dalla legge e dallo statuto, le norme contenute nel libro undicesimo, titoli II, III e IV, del codice di procedura penale», dettato in tema di estradizione su richiesta di uno Stato estero; e tra queste norme vi è un articolo (il 716) che, per situazioni analoghe a quella contestata sabato sera al ricercato dalla Corte internazionale, detta le regole cui si è attenuta la polizia torinese. Né si può dire che, disciplinando esplicitamente, e in deroga alle norme del codice attinenti a questa materia, la sola situazione di chi sia oggetto di una richiesta di custodia cautelare, la legge del 2012 abbia implicitamente interferito nel diverso campo dell’arresto provvisorio, impedendo con il silenzio l’applicazione delle norme del codice rientranti tra quelle richiamate dall’art. 3, così da fissare in proposito un divieto che non c’è nel codice, di arresto provvisorio ad opera della Polizia.
Del resto, ci si potrebbe anche domandare come mai, una volta pervenuta al Ministero la comunicazione circa l’avvenuta emissione del mandato d’arresto internazionale, non si sia giunti subito a un’ordinanza applicativa della custodia cautelare da parte della Corte d’appello investita dall’ufficio del Guardasigilli. Carenza di documentazione di supporto e inesistenza dei requisiti per un’applicazione provvisoria, pur in astratto possibile ai sensi dell’articolo 14 della legge? O che altro?
Una spiegazione sembra necessaria, per non dar adito all’ennesima polemica delle ombre per le chiusure d’occhio dei nostri governanti (a dire il vero, non soltanto di quelli attuali) di fronte a violazioni dei diritti umani consumate in mare e sulla terraferma da funzionari, anche di alto grado, di Paesi come la Libia.
C’è, però, almeno un altro aspetto che la vicenda mette ulteriormente in risalto. È quello del tramonto - si vorrebbe sperare solo temporaneo - del sogno di una giustizia penale internazionale che riuscisse a imporre in modo efficace una reale forza alle sue decisioni. Sì, forse non tutto e non sempre, nel funzionamento della Corte dell’Aja, si è espresso in modo totalmente credibile, e non solo a causa di poteri speciali come quelli che al riguardo lo Statuto concede a un organo politico com’è il Consiglio di sicurezza dell’Onu. Ci si sta abituando all’indifferenza –talora addirittura conclamata o preannunciata – e agli inadempimenti per l’obbligo di dare esecuzione a sentenze e provvedimenti di quella Corte? Allora, forse, non ha torto chi parla di “eclissi del diritto”.