giovedì 23 giugno 2011
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Nella recente conferenza internazionale dell’American Thoracic Society a Denver è stato presentato il software realizzato da alcuni ricercatori della Pennsylvania per aiutare persone affetti da gravissime patologie respiratorie a compilare il proprio testamento biologico. Per i pazienti si trattava di porre domande al computer che, come una sorta di consulente, li avrebbe poi guidati a risolvere ogni dubbio sui trattamenti medici cui sottoporsi, sulla qualità della vita, sulle scelte necessarie per garantirsela, anche a prezzo di anticipare il decesso.Alla fine del percorso guidato dalla macchina, i pazienti erano in grado di stampare il proprio testamento biologico, sottoscriverlo e affidarlo ai medici che li avevano in cura. I ricercatori si sono premurati di informarci che i pazienti, invece di allarmarsi o di fare comprensibili scongiuri, sono risultati molto soddisfatti delle decisioni sul loro "fine vita" generate dal computer, quasi che questo superbo prodotto della moderna tecnologia li avesse convinti di poter risolvere tutte le loro ansie. Non è tuttavia dato di sapere se il software sia in grado di rispondere anche alle domande ultime di fronte alla morte.Come neurologo mi interessa particolarmente il fatto che, in precedenza, un programma simile è già stato testato dagli stessi ricercatori anche su malati di Sclerosi laterale amiotrofica (Sla) oltre che su pazienti neoplastici e cardiopatici. Quando arriverà in Italia, noi medici specialisti potremo forse evitare di confrontarci con le domande dei nostri pazienti colpiti da Sla, con l’angoscia scritta nei loro occhi... Un paradosso? Non troppo: anche in Italia c’è chi tenta di seppellire l’alleanza medico-paziente col testamento biologico fai-da-te, scaricabile dal sito Internet di qualche nobile Fondazione.Ma questo spiegamento di tecnologie non corrisponde a ciò che i malati terminali si attendono. Questi, infatti, chiedono di ricevere cure personalizzate, capaci di umanizzare l’ultimo tratto del loro calvario; di essere aiutati a superare la solitudine e l’angoscia che essa produce; di venire rassicurati sul fatto di non essere un peso inutile. Esprimono in definitiva una domanda di attenzione, di presenza, in grado di confermare la permanenza di un’identità. Si tratta di una domanda alla quale si può rispondere solo con l’accompagnamento del malato, con l’occhio vigile del curante e la compagnia del personale sanitario, della famiglia, degli amici, dei volontari. Ciò che il malato reclama è proprio di non essere abbandonato.La morte può ritrovare il suo significato solo come evento sociale, all’interno di una comunità di vita. Come affermava Marie de Hennezel in un celebre rapporto al ministro della Sanità di Francia, la morte può essere un tempo forte, segnato da una dinamica relazionale sorprendente, che ha valore sia per chi muore sia per chi gli è accanto: «È il tempo degli ultimi scambi, e questo è fondamentale». Altro che software.Scegliere scorciatoie equivale a mancare un’occasione unica di assistere l’altro e contribuisce solo a disumanizzare la vita (oltre che la morte). Per questo, qui in Italia, le dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat) non possono ridursi a strumento burocratico, ma debbono mantenere il carattere di incontro fondamentale e di momento di scambio privilegiato tra il medico e il suo paziente.«Quando si muore, si muore soli», cantava Fabrizio de André. Quando morirò, invece, mi piacerebbe non essere solo. Forse avrò paura ma, come il curato di campagna di Bernanos, io uomo di scienza vorrei che coloro che mi accompagneranno mi aiutassero a gridarlo a Gesù Cristo: che non mi si abbandoni.
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